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Storia dei Mille

Giorni pericolosi

 

 

alto

Nei dieci mesi che volsero dalla pace di Villafranca alla spedizione deiMillel'Italia di mezzo diede prove di virtù civili meravigliosema colPiemonte corse dei pericoli gravi forse quanto quelli che il Piemonte stessoaveva corsiprima della guerra del 1859. I duchigli arciduchii legatipontifici fuggiti dalle loro sedifin da prima di quella guerranon avevano piùosato tornarvi; e allora ParmaModenaBologna con la Romagna fino allaCattolicasi strinsero in un solo Statoche nel bel ricordo della gran viaromana da Piacenza a Riminichiamarono l'Emilia. Spento così d'un tratto ognivecchio sentimento di gelosiaconferirono la Dittatura al Fariniromagnolovenuto suda giovanenelle cospirazionie poi maturo ed esule fattosi allavita dell'uomo di stato vicino al Cavourin Piemonte. Si crearono un esercitopropriocon gioventù propria e d'ogni parte d'Italia; e il loro governoprocedeva d'accordo con quello di Toscanalibera anche essae col suo grandestatista Bettino Ricasoli risoluta d'unirsi al regno di Vittorio Emanuele.Intanto quelle regioni si chiamavanotutte insiemeItalia centrale.
Quello Stato provvisorio era tranquillo come se non ci fosse in aria nessunaminacciama senza mostrarne pauraconosceva i pericoli tra i quali viveva.L'Austriache non aveva potuto aiutar con l'armi i principi fuggiti a tornaredichiarava caso di guerra l'ingresso anche d'un solo soldato piemontesenell'Italia centrale: la Russia era apertamente ostile non soltanto a cheToscana e Ducati e Legazioni si unissero al regno di Vittorio Emanuelemaancora a che si scegliessero un Sovrano: la Prussia consigliava il Piemonte dirimetter esso stesso in trono i principi fuggiti. I diplomatici italiani avevanoun bel dire fin da allora ai prussiani che la Germania mostrava desiderio dirompere i legami posti anche a lei dai trattati del 1815: quegli uomini diStatosebbene sapessero che presto la Germania avrebbe fatto ciò che giàfaceva l'Italiainsistevano perché il Piemonte si contentasse della Lombardiasi consolidasse bene e lasciasse tempo al tempo. In quanto a Napoleone IIIquesti diceva di non voler correre i rischi di una nuova guerra che l'Austriaavrebbe immancabilmente intrapresa se fosse avvenuta l'annessione dell'Emilia edella Toscana al nuovo regno; ed erano avversi all'Italia la Spagnala Bavierapersino il Belgio.
Sola l'Inghilterra si mostrava amica al nuovo Statoche si veniva formando;sola suggeriva agli Italiani dell'Emilia e della Toscana di stare saldi nellaloro risoluzione. Al Piemonte consigliava di faredi osare senza domandare e dinon darsi briga né dell'Austria né della Franciané di nessuno. E ilRicasoli e il Farini erano uomini da sentir bene il consiglioperché stavanoal governo di popolazioni che sapevano ragionare il loro diritto. Come s'eranoformate le grandi potenzeesse che mormoravano e minacciavano perchéPiemontesi e Lombardi volevano aiutare i loro fratelli del centro a divenircom'essi liberie tutti insieme Italiani? L'Austriala Franciala PrussialaRussia si erano costituite in secoli di violenze e di usurpazionicalpestandopopoliche due o tre di esse ritenevano ancora con la forza; gli Italiani nonconquistavanonon usurpavano nulla; non abbattevano se non delle dinastie cheloro erano state imposte. Ora perché essele grandi potenzevolevanoimpedirli?
Si ragionava cosìe così stavano le cose nel principio del 1860quandoappunto Cavourche dopo la pace di Villafrancasdegnato contro Napoleone e fincontro il Resi era ritirato dal governotornava alla presidenza dei Ministri.Egli allora osò da uomo che sapeva di aver dei collaboratori potentie unpopolo pronto a tutto. E d'accordo con luiil Ricasoli per la Toscana e ilFarini per l'Emiliapubblicarono il Decreto che convocava i Comiziin tuttal'Italia centralepel plebiscito. In quei Comizii votanti dovevano dichiararese volessero l'unione alla Monarchia costituzionale di Vittorio Emanueleovveroil regno separato. E nell'Emilia su 2916104 abitanticomprese donne efanciulli426006 voti furono per l'unione; contrarisolo 756. Nella Toscanasu 1806940 abitanti votarono per l'unione 366871pel regno separato 54925.Così l'Europache tante sciagure aveva versate o lasciato versare sull'Italiada secolivide meravigliata Emiliani e Toscani concordi ed entusiasti fondersicon Piemontesi e Lombardi; e i duchi e gli arciduchi - parole di Cavour -"sepolti in perpetuo sotto il cumulo di schede deposte nelle urne."
Protestarono i principi che vedevano levati via per sempre i pretesi lorodiritti; protestò l'Austriaprotestò quasi tutta l'Europama nessuno simosse: e un regno dell'Alta Italiadi undici milionifu fatto.

*

Alloraanche a uomini molto arditiparve di aver avuto tanta fortunachepensare ad altro sembrava temerità e follia. L'Europa potevaalla finesaltarsu e dire di aver tollerato anche troppo. Infatti mostrò ancora il suo broncioil 2 aprilenella seduta inaugurale del nuovo Parlamento in Torino; nella qualsedutacon manifesta avversionenon si fecero vedere i rappresentantidiplomatici di RussiaPrussiaSpagna e del Belgio. E se i limiti del nuovoregno fossero stati segnati dalla valle del Poforse il Governo avrebbe potutofacilmente persuadere lo spirito pubblico a mantenersi cheto per alcuni anniaspettando e preparando altri eventi. Ma i confini erano già di làdall'Appennino; e aver a far parte del regno la Toscanala gran maestra anticadella vita civile italianavoleva dire esser costretti a continuare l'impresanazionale. Napoleone III lo aveva ben capitoe di malumore aveva già detto adun suo ministro che l'unione della Toscana al regno di Vittorio Emanuele portavadi conseguenza l'unità italiana. Però al Conte di Cavour l'unità non parevaancora possibile. L'idea sua era sempre di dar assetto al nuovo regno;promuoversi tutte le libertà; svolgerne le forze già così rigogliose eomogenee; farlo riccocoltosolcarlo di strade ferrate e di canali; dotarlo diogni sorta di opere pubbliche; farne insomma il Belgio in grande dell'Europameridionale. Cosìintanto gli Italiani dello Stato Pontificio e delle DueSicilieavrebbero sentito e desiderato la prosperità dello Statosettentrionale anche per sé; e forseprima che passasse un decenniosisarebbero mossi spontaneamente per unirsi a goderla. Egli aveva allora appenacinquant'annie poteva ripromettersi di vivere ancora tanto da guidare quelmovimento.
Senonchè Mazzini sin dal 2 marzo aveva scritto: "Non si tratta più direpubblica o di monarchiasi tratta di unità nazionale; d'essere o non essere.Se l'Italia vuole essere monarchica sotto la Casa di Savoiasia pure: se dopola riscossa vuol acclamare liberatori e non so che altro il Re e Cavoursiapure. Ciò che ora vogliamo è che l'Italia si faccia." Il gesto eraprecisodiritto; SiciliaNapoliRoma tutto doveva venire nell'unitànazionale: per Mazzinipel suo partitoche era anche fatto di uomini diguerral'ora era buona; o coglierlaquali che si fossero i pericolio nonvederla tornar mai più. Egli fin dal 1856 aveva rivolta la sua azione al Mezzodìper far procedere di laggiù in su la propaganda rivoluzionaria: nel '57pertentarvi una rivoluzioned'intesa con lui era andato a morir colà Pisacane:nel '59temendo che la pace di Villafranca e le sue conseguenze portassero afar guarentire dall'Europa l'intangibilità delle Due Sicilieegli Mazziniaveva mandato Crispi in Sicilia a promuovervi agitazioni e a prepararvil'insurrezione. Ora dunque bisognava gettare il dadoe cominciare appunto dallaSicilia.

*

Certo la convinzione di Mazzini l'aveva in partealmeno nel cuoreanche ilCavour. Egli dopo Villafrancain uno scatto di magnanima iraaveva detto:"Mi hanno troncato la via a fare l'Italia con la diplomazia dal Nord;ebbenela farò dal Sud con la rivoluzione!" Ma poi si era frenato. E seMazzini vedeva le cose da credente che subordinava tutto alla propria fedeeandava incontro ai fattifosse pure per trovare il martirioCavour col suotatto del possibile guardava da uomo di Stato che misura le probabilità e viconforma l'azione. Il regno delle Due Sicilie gli pareva un organismo da lasciarvivere ancora; le idee sue rispetto a quello non si erano peranche mutate.
L'anno avantinel maggioappena salito al trono Francesco IIegli lo avevainvitato a unirsi al Piemonte contro l'Austria. Ma Francesco aveva preferito laneutralitàsperando che RussiaPrussiaInghilterra si sarebbero messe dallaparte dell'Austriae che la guerra del '59 sarebbe finita come quella del '48.Cavour il 25 giugnocioè dopo la battaglia di Solferino e San Martinosempresperando di convincere quel Re a divenir italianogli aveva mandato il conteRuggero Gabaleone di Salmour come inviato straordinariocon l'istruzione didirgli che il concetto dell'indipendenza italiana aveva informato sempre ilGoverno piemontese; che perciò da anniconsigliando con l'esempio e con lavoce agli altri principi d'Italia quelle interne riforme che desserosoddisfazione ai legittimi desiderii dei popoliaveva mirato soprattutto aconsociarli nello stesso intento di nazionalitàunico mezzo per disarmare lefazioni. Quel diplomatico doveva ricordare al Re avere il Piemonte ammonitosempre cheseguendo altra viai governi avrebbero dovuto combattere non piùle settema il sentimento universale della nazionee che nella funesta lottanon essi sarebbero stati vincitori. L'inviato doveva anche dire che mentre laguerra era guerreggiata in Lombardial'ostinata neutralità del re di Napolisarebbe considerata come una diserzione o un segreto patteggiamento coll'inimico.In quanto alle Due Siciliepoidoveva dire essere noto che colà più chealtrove fremevano passioni ardentirancori profondiire lungamente compresseche aspettavano ansiosamente l'occasione di prorompere terribili e irrefrenate:che le occasioni non tarderebberoe con esse gli incitamenti e le seduzionientro e fuori del regno: che confidare nella sola forzafar puntello al tronod'armi mercenarieera partito che non solamente doveva ripugnare all'animoonesto del giovane Rea partito mal sicuro e pieno di pericoli. Pensasse il Reche la presenza di un esercito francese in Italia doveva commuovere il paesedove aveva regnato Gioachino Murat; e dove era morto compianto: ci pensasseecollegandosi sinceramente col Piemontedichiarasse pronta guerra all'Austria emandasse parte dell'esercito sul Po e sull'Adigea combattere a fianco diVittorio Emanuele e di Napoleone. L'inviato doveva anche pregare il Re di farvuotare le carceri politichedi riaprire le vie del ritorno ai proscrittidisanar le piaghe della Sicilia; ma su questo e su tutto il resto aveva trovatosordi i cuori.
Tuttavia Cavour non si era stancato. Al principio del 1860appena tornato algovernoquando temeva ancora l'intervento dell'Austria nell'Italia centraleaveva ritentato di condurre il re di Napoli ad allearsi col nuovo regno diVittorio Emanuele. Ma Francesco II e il suo governo si erano messi invece acospirargli controistigati dal Nunzio Pontificiodalla Spagnadalla reginaSofia di Baviera stessa sposa del Refantasticanti tutti insieme una legacattolica. E assoldavano austriaci per Napoli e pel Papaconcentravano soldatinegli Abruzzimiravano a suscitar tumulti nella Romagna.
Allora Cavour cambiò tonoe fece avvertire badassero bene a non far metterepiede di soldato borbonico nel pontificio. Essicocciutinon ascoltavanoconsigli neppur dall'Inghilterra. La quale alla fine diceva loro tiranniaingiustiziaoppressione essere le caratteristiche del governo dell'Italiameridionale; quelle dell'Italia settentrionalelibertà e giustizia; e che intutti i paesi del mondola gente anche la più volgare capiva la differenzaesistente tra un governo giusto e umano e un governo ingiusto e spietato.Ostinato ognor piùnon ascoltavano nemmeno la Russia loro amicissimache perbocca del suo primo Ministro diceva a Napoli che la polizia del Regnospiacevafino al capo della polizia russa; e questi era allora Kakoskineuomoaddirittura feroce. Anche la Francia consigliava invano minori asprezze.
Pareva tempo da non usar più nessun riguardoma forse il giovane Re ispiravaancora a Vittorio Emanuele una certa pietà: Era figlio di Maria Cristina diSavoiasposata nel 1832 al grossolano e cattivo Ferdinando IItrattata malenella reggia e morta consunta nel 1836. Essa aveva avuto quell'unico figlio. Esi sapeva che quando era natonon volendo concedere a lei di allattarloleavevano fatto entrare in camera per nutrice una donna di Santa Luciapiagata auna gambacon le tracce della scrofola al collocon pochi capelli in testaquasi tignosa e con figli rachitici o che non si reggevano in piedi. Avevarivelate queste miserie un abate Terziche Maria Cristina aveva condotto con sédal Piemonte per confessore. E l'abate aveva anche narrato che vicina a morteavendo chiamato il Rela infelice regina s'era sentita rispondere che il Redormiva. Così era spirata soletta come una poveracon al capezzale un oscurofrate; e il popolo napoletano l'aveva chiamata santa.
Per disgrazia suaquel povero bambinoorfano di madremal visto erede altrononon aveva potuto morire anch'essoera stato educato a odiare ogni cosaitaliana. Ed ora regnava. Se Vittorio Emanuele aveva voluto che il suo Governousasse dei riguardi a quel parente nato e vissuto infelicecome uomo di cuoreaveva fatto bene.

L'agitazioneper la Siciliaalto

Ma la Nazione non aveva nessun dovere di sentimenti pietosi. E allora la vocedi Mazzini che dopo la pace di Villafranca aveva gridato: "Al Centromirando al sud" si mise a gridare: "Al Sud mirando al CentroRoma:" e infiammò i cuorie diresse le aspirazioni degli italiani delNord verso la Sicilia. Egli e i Comitati suoi e il partito repubblicano che nel1859 aveva saputo lealmente servire in guerra la monarchias'accinsero alpreparar un'impresa che pareva follee che invece doveva riuscire a finimeravigliosi. L'uomo per condurlatutti lo designavano: Garibaldi.
Intanto Mazzini aveva fatto partir per la Sicilia Rosolino Pilo. Era questi unuomo di quarant'anninato in Palermo dalla famiglia dei conti Capecisangue d'Angiòtutta devota ai Borboni. Egli unico di quella famiglia aveva dato il suo cuorealla patria. Dal '49 era esule; nell'esiglio aveva conosciuto Mazzini e n'eradivenuto l'apostolo. Nel 1857doveva andar compagno di Pisacane alla impresafinita in Sapri; ma i barcaroli coi quali aveva aspettato il passaggio delvapore Cagliarilo avevan mal servitoil vapore era passatoed egli eraridisceso a Genovaa sentir poi la tragica fine dell'amico. Da allora avevavissuto con quella spina nel cuore. Orad'intesa con Mazzini e con Garibaldipartiva il 26 marzo su di un povero legno viareggino per l'isola sua. Garibaldigli aveva detto che qual si fosse il suo destino laggiùrammentasse che tuttovi si doveva fare in nome dell'Italia e di Vittorio Emanuele. Pilorepubblicanoaveva accettato il mottoed era partito con Giovanni Corraoanche questi sicilianoarditissimo uomo del popolo. Avevano navigatoquattordici giornierano riusciti a sbarcar presso Messinae s'eran messi apercorrere l'isolaannunziando Garibaldi.
Anche Cavour era ormai quasi convinto che non si poteva più lasciar laquestione napolitana al tempoma gli doleva che Garibaldi e Mazzini sipigliassero col loro partito l'onore d'essere i primi. E perciò d'accordo colFantiMinistro della guerra non amico di Garibaldiavea già fatto profferireal nizzardo generale Ribotti d'andar in Sicilia a capitanarvi l'insurrezione.Ribotti gli pareva uomo da ciò. Era stato al servizio della rivoluzionesiciliana del '48; per essa aveva tentato di portar l'armi in Calabriaerastato preso e condannatoe aveva sofferto anni di carcere dai Borboni. MaRibotti non aveva accettato. Forse indovinava che laggiùsolo il gran nome diGaribaldi e l'ingegno suo di guerra e la sua figuraavrebbero potuto trovar lavittoria.

*

In quei giorni venne come la folgore una lieta notizia: a Palermo erascoppiata l'insurrezione. E si diceva che all'alba del 4 aprileda un conventochiamato della Ganciaun Francesco Risogiovane di 28 anniaveva con alcunicompagni data la mossae che un Salvatore La Placa s'era azzuffato con lamiliziain certi quartieri della città abitati da pescatori e retaioli. Ma lagioia si cambiò in ira quandosubito appressooggi una vocedomani l'altrasi seppe che quei generosi erano stati oppressi; che le squadre di campagnagiàscese vicino a Palermos'erano ritirate nei monti; che tredici compagni diRisooltre quelli morti combattendoerano stati fucilati; che egli giacevapieno di ferite e prigioniero; che lo stato d'assedio era proclamatoe cheerano arrestati il padre di Riso con altri cittadini cospicui di Palermo. Dunquela rivoluzione era domata! Nonon doveva essere: l'Italia superiore la facevasua propria.
Da quel momento tutti cominciarono a chiedere che facesse Garibaldie se non simuovessee se non era ancora andatoe perché non fosse ancora laggiù. E nondicevano giàche dovesse muoversi il governo di Vittorio Emanuele; tuttiavevano il sentimento del rischio cui si sarebbe messo d'aver mezza Europaaddosso: a tutti bastava che si muovesse luiGaribaldiche quanto a gente perseguirlo ce ne sarebbe stata anche troppa. Ma si sentiva che bisognava farprestoperché il Governo borbonico aveva compreso che la Sicilia non mirava piùcome nel '20 e nel '48 a separarsi da Napoli o a rifarsi regno da sé; ma che ilsuo moto era di tendenze unitariecon mira all'Italia superiore. Perciò quelGoverno prometteva largamente strade ferrateportifranchicasse di scontoprestiti alle grandi città; mentre si ingegnava di reprimere la insurrezionenell'internomandando colonne mobili a disarmare la gente. Se Francesco IIavesse dato una costituzione quale l'isola la voleva del '48chi poteva direche la Sicilia non si sarebbe acconciata? Bisognava proprio far presto.

*

Non si vuol mica dire che nel settentrione i liberali bruciassero tutti daldesiderio di vedere andar gente ad aiutar la Sicilia e Napoli a liberarsi daiBorbonia unirsi al resto d'Italia. V'erano allora i ragionatori che trovavanogli argomenti forti in contrario. Ma come mai si voleva fare un solo stato diquest'Italia così lunga e sottilesenza un centroe nel napoletano senzastrade né nulla? Eh giàrispondevano altriragionatori anch'essiquestecose le diceva pure Napoleone I. Diceva che se tutta la parte d'Italia dal MonteVelino in giù e con essa la Sicilia fosse stata gettata dalla natura tra laSardegna e la Corsica la Toscana e Genovala Penisola avrebbe avuto un centroquasi egualmente distante da tutti i punti della sua circonferenza: ma cosìcome era fattaquella parte dal Velino che formava il Regno di Napoliglipareva di climad'interessidi bisognidiversi da quelli di tutta la valledel Po e di quella dell'Arno. Però non avrebbe detto così se a' suoi tempiavesse avuto il telegrafola navigazione a vaporele strade ferrate. Tuttequeste cose levavano via dall'Italia un bel po' degli inconvenienti della suaconfigurazione. Del restoNapoleone aveva soggiunto che nonostante tuttol'Italia era una sola nazioneuna di costumidi lingua e di letteratura;affermava che in un tempo più o meno lontano i suoi abitanti si unirebberosotto un solo governo; e passate in rassegna le condizioni storiche di tutte legrandi cittàdichiarava solennemente di pensare che Roma sarebbe senz'altroquella che gli Italiani si sceglierebbero per capitale.
Altri ragionatori dicevano che il Re di Napoli teneva un esercito di più di 120mila soldatibene armati e con cavallerie e artiglierie delle migliorid'Europa. Era vero. Ma ai giovani che ascoltavano solo il cuoreil cuore dicevauna cosa molto semplicecioè che quei cento ventimila soldati non erano tutticome un sol uomonel pugno di quel Recosì che ei li potesse lanciar di colponel punto dell'isola dove Garibaldi anderebbe a sbarcare. Allora i savisoggiungevano che intorno all'isola vigilava una crociera di chi sa quante naviforse trentaforse quaranta: ma quelli del cuore sentivano che se anche le navifossero tanteil mare era vastoe che una catena intorno all'isola non erapossibile a tenersi così strettache di notte o di giorno un marinaio comeGaribaldi non riuscisse a passare.
(NdA: Si seppe poia cose finiteche la crociera intorno all'isola eracomposta di 14 legni e di 2 rimorchiatori da guerracon aggiunti ad essi 4piroscafi mercantili della Società di navigazione siciliana e 2 dellanapolitanaarmati e dati da comandare ad ufficiali militari. In tutto adunqueerano 22 legni. La vigilanzada Capo San Vito a Mazzaraera affidata allaPartenopefregata a vela da 60 cannoni; al Valorosopure a vela da 12 cannoni;allo Strombolipirocorvetta da 6 cannoni e al Caprida 2. Comandavano quellacrocieraun Cossovich capitano di vascello imbarcato sulla Partenopee sulloStromboli era imbarcato l'Actonbaldanzoso uomo che partendo da Napoli avevadetto al Re di voler buttar a mare Garibaldi. Da Mazzara a Capo Passaroda CapoPassaro al Farodal Faro a Trapaniincrociava il resto della flotta.)
Invece una preoccupazione grave davveroe tale da togliere l'ardire a moltiriguardava il poise mai la spedizione sbarcasse. Della Sicilia si sapeva pocoqual fosse nell'interno. Nella sua solitudine pareva quasi fuor della vita. Equasi più del suo tempo presente si sapeva del suo passato ma bene antico.Molti parlavano di quelle sue città di due milioni d'abitantidel suo popolod'otto milioni che nutriva sé eppure faceva ancora chiamar l'isola sua granaiod'Italia; sapevano enumerare le sue civiltàgrecalatinaaraba; la suamonarchia normanna che seppe valersi di quelle civiltàfarsi amare dai vinti elasciarea traverso i secoliil desiderio ancora di quel regno. Ma all'infuoridei marinaichi mai sapeva della Sicilia presente? Chi vi era mai stato? Forsequalche riccoe anche soltanto nelle grandi cittàPalermoMessinaCataniaSiracusa; ma l'interno dell'isola non era guari conosciuto neppur sulla carta.Però si indovinava e si amava il suo popoloperché avevano insegnato apregiarlo i suoi profughine' dieci anni da che stavano rifugiati in Piemonte;gente degnapatriziletteratiavvocatimediciarchitetti o artigianivalenti e virtuosi. Se dalla Sicilia era venuto via quel fior di gentenonpoteva darsi che non vi fosse laggiù un popolo degno di loro; bisognavaandarviper dir cosìa scarcerare l'anima dell'isolafarla espandersi nellavita italiana. Quante energiequanta lucequante virtùaggiunte all'animadella nazione! Queste cose non si pensavano per l'appunto cosìma si sentivanovagamentecome nell'adolescenza si sentono le prime aure dell'amore cui si vaincontroe sono la vita.
Ma intantoquale rischio l'andarvi! Certo Garibaldi si sarebbe gettato suqualche costalontano dalle città marittimedove non fossero milizieper nonfarsi opprimere appena giunto. E da quella costa si sarebbe mosso a trovarnell'interno sui monti qualche posizione forteper chiamarvi a sé gli insortie fare un esercito tale da poter affrontare in campo quello dei regio magaripiombar sulla capitale. Ma quanti scontri avrebbe dovuto sostenere nelle sueprime marciee chi mai sapeva in quali condizioni? E se gli fosse avvenuto diperdere? Pazienza i mortima i feritiin che mani sarebbero rimasti? Come liavrebbe trattati il nemico offeso per quell'assalto che gli veniva da gente difuori? E chi fosse riuscito a salvarsi da quelle maniin quali boschiin qualitanesenza curesolodisperato sarebbe andato a finire? Si fantasticavanocose orrende. Eppure l'aria del tempola fede in Garibaldi e una certa voluttàdi andare a patire per una grande ideafaceva vincere anche quelle tetrepreoccupazioni.
E appuntoqual era allora lo spirito dell'esercito del Borbone? A sentir gliesuli siciliani e napoletaniin quell'esercito v'erano dei generalideicolonnellipersin dei vecchi capitaniche sapevano bene quanta era stata lagloria dei loro padri. Da fanciulli li avevano visti tornare dalle guerrenapoleoniche di Spagna e di Russiadopo aver empito il mondo delle loro geste edei loro nomi. Nel 1815 li avevano visti sotto re Gioachino tentar l'impresa dicacciar l'Austria dalla Lombardia. Nel 1848 avevano marciato essi stessi allaguerra quasi fino al Po; erano tornati indietro afflittiquando il loro Respergiuro li aveva richiamati; e quelli che non avevano ubbidito ed erano andatia Veneziavi si erano fatti ammirare. PepeUlloaRossarol! Appressoa sentirle risorte glorie dei Piemontesi in Crimea e poi quelle recenti del 1859dovevano aver patito di non essere stati mandati a quella bella guerrafattaper cacciare lo straniero. E così forse era entrato nell'animo dell'esercito loscontento. Ma in quel momento non si sapeva se amassero o odiassero. Forsecontro i piemontesi avrebbero combattuto fieramentese ne fossero scesi nelRegno a guerra di Re: ma contro Garibaldi avrebbero combattuto solo perdisciplina. Dovevano anche trovarsi nelle file molti ai quali quel nome incutevasgomento. Non era egli colui che undici anni avanti si era fatto conoscere aVelletri e a Palestrinaquando i napolitani erano marciati su Roma perrimettere il Papa in trono? Insommabene bene non si sapeva nulla dello spiritovero dell'esercito laggiù: certoa volerlo giudicare dalle opere contro laSiciliadoveva essere feroce ancora come era stato nel '48. Ma si sarebbe vistoalla prova cosa valessero quelle milizie in cui ufficiali e sott'ufficialiavevano quasi tutti grossa famiglia; e si sarebbero visti anche gli stranierimercenari che non si chiamavano più svizzerima di svizzeri erano formati e dibavaresi e d'austriacid'un po' d'ogni gente.
In quanto alla marineriasaperne qualcosa sarebbe stato più interessante. Maneppur essa si conosceva guari. Però degli ufficiali malcontenti ve ne dovevanoessere; e anzialcuni dicevano che quelli del Fieramoscaquando nel gennaiodel '59 avevano scortato a Gibilterra i grandi cittadini del Regno liberatidalle galere ma condannati alla deportazioneerano stati visti con le lagrimeagli occhi e il dolore sul viso.
Così dicevano i meridionali profughi antichi o recenti dal Regno. Tra essi iSiciliani erano i più ardenti. Parlavano della loro isolafacendone ritrattivivissimi coll'immaginosa parola. I loro Vespri parevano un fatto recente.Conoscevano la storia della loro indipendenza dai Vespri fino al 1735come sel'avessero vissuta; si vantavano di aver avuta da quell'anno bandiera eamministrazione distinta dalla napolitanae Parlamento proprio: tutte coseconfermate nella Costituzione del 1812quando i Borboniperduto il continentesi erano rifugiati laggiù e vi avevano trovato sicurezzaprotetti dallagenerosità del popolo e dall'Inghilterra. Ma essitornati sul trono di Napoliavevano poi tradito tuttoe cominciato a offender l'isola e il suo popolochiamandola negli atti pubblici: "Terra di là dal faro"quasi come adire paese barbaro. Onde le sue rivoluzioni del '20 e del '48e un odiocrescente sempre e tantoche l'isola si sarebbe messa sotto l'InghilterralaRussiala Franciasotto chi si fosse che l'avesse volutapur di esser levatada dipender da Napoli. Ora quella passione si rivolgeva all'Italiaa chiamarleil'Italia del nord che doveva ascoltarla. E Garibaldi dov'erache cosafaceva?

Garibaldi eCavouralto

Garibaldi stava in Torino alle prese col Conte di Cavourperché avvenuta lacessione di Nizza alla Franciacredeva che egli la avesse patteggiata fin dal'57quando aveva concertato con Napoleone l'aiuto militare del '59. Invece lacessione era seguita per una soperchieria di Napoleoneche oltre la Savoiapernon opporsi all'annessione dell'Emilia e della Toscana al regno di VittorioEmanueleaveva voluto anche Nizza. Cavour aveva fatto di tutto per salvarlamanon v'era riuscito; e Garibaldi pareva contro di lui implacabile. Ma il 7 aprilegli capitarono a Torino il Bixio e il Crispii quali "a nome degli amicicomuni per l'onor della rivoluzioneper carità della povera isolaper lasalute della patria intera" lo pregarono di mettersi a capo di unaspedizione e di condurla in Sicilia. E Garibaldi che forse meditava un motopopolare in Nizza stessaper salvarla lui se Cavour non aveva potuto; messo indisparte questo e ogni suo pensieroaccettò e decise di far l'impresa.
Par quasi certo che Egli n'abbia parlato con Vittorio Emanuele e che n'abbiaavuti incoraggiamenti. Però il Reil 15 aprilevolle ancora scrivere alCugino di Napoli che era "giunto il tempo in cui l'Italia poteva esserdivisa in due stati potentiuno del Settentrione l'altro del Mezzogiorno: cheEgli pel bene suo lo consigliava di abbandonare la via fino allora tenuta: e chese ripudiasse il consigliopresto egliVittorio Emanuelesarebbe posto nellaterribile alternativa o di mettere a pericolo gli interessi più urgenti dellastessa sua propria dinastiao di essere il principale strumento della rovina dilui. Qualche mese che passasse ancora senza che egli si attenesse all'amichevolesuggerimentoegliil Re di Napolisperimenterebbe l'amarezza delle terribiliparole: troppo tardi."
E scritto cosìVittorio Emanuele partì lo stesso giorno 15 aprile pel suoviaggio trionfale in Toscana e nell'Emiliadove andava per la prima volta daRe.

*

La sera di quel 15 aprile Garibaldi si presentò improvviso alla VillaSpinola nel territorio di Quartoallora ignoto borgo poco discosto da Genovasulla riviera orientale. In quella villa se ne stava Augusto Vecchi esuleAscolanosuo antico ufficiale di dieci anni avantialla difesa di Roma.
- Buona seraVecchi; vengo come Cristo a trovare i miei apostolied ho sceltoil più riccoquesta volta. Mi volete?
- Per DioGeneralee con piacere immenso! -
Pare una pagina romanzescama allora appunto cominciava il periodo in cui lecose più vere ebbero l'aria di fantasie.
In quella villa il Generale si stabilìe vi chiamò i suoi.
Per andare in Sicilia occorrevano armied egli senz'altro mandò in Milano aprenderne di quelle già comprate col fondo del milione di fucilifattoraccogliere da lui per sottoscrizione nazionale. Sennonché làMassimod'Azegliogovernatorenon solo rifiutò di concedere che se ne portasse viauna partema le fece mettere tutte sotto sequestro. Scrisse poi d'aver temutoche quelle armi finissero in tutte altre mani che quelle di Garibaldicertotemeva di Mazzinima in quel momento l'atto suo diede grandemente da sospettareche il Governo fosse avverso a ogni impresa garibaldina.
Veramente il Conte di Cavour desiderava proprio più che mai che la spedizionenon si facesse. Temeva che Garibaldiuna volta mosso si lasciasse trasportaredal suo vecchio pensiero di Romae invece che in Sicilia andasse a sbarcare suqualche parte della costa pontificiasenza riguardo al pericolo di tirareaddosso a sé e al Regno una guerra dalla Francia. Speravaanziche ogni cosasfumasse. Il 24 aprile mandò apposta il colonnello Frapolli da Garibaldiperindurlo ad abbandonare ogni disegno; e il Frapolliamico del Generalegli parlòdelle difficoltà che si opponevano ad una discesa nell'isola o nel continente.Gli ricordò persino le tragedie di Muratdei Bandieradi Pisacane. Non si sache viso facesse il Generale a tali moniti del Frapollima certo è che questitornò a Torino da Cavourpersuaso che Garibaldi non partirebbe. Ein veritàil Generale era già inclinato a rompere ogni preparativoperché dalla Siciliaaveva notizie non buone. Ondeggiò tutti quei giorni pensando alla tremendaresponsabilità di una catastrofe. Il 27 gli giunse un telegramma da Fabrizi daMaltaquasi lugubre: "Completo insuccesso nelle provincie e in Palermo;molti profughi raccolti dalle navi inglesi giunti in Malta." Così dicevail telegramma. E la parola del Fabrizi valeva quella che Garibaldi stessoavrebbe detto. Era un vecchio patriota di quelli sfuggiti nel 1831 alle forchedi Modena; e sempre poi aveva vissuto in esilio a onorare l'Italia e a farlastimare dagli stranieri. Egli non poteva che dire la verità. E perciòGaribaldi deliberò di lasciar andar tuttoe di tornarsene nella sua solitudinedi Caprera: anzidiede ordine di tenergli un posto sul vapore che dovevapartire il 2 maggio per la Sardegna. Cavour lo seppee scrisse a Napoleone cheormai di una impresa di Garibaldi non c'era più da temere.
Ma allora si erano fatti attorno al Generale tutti i più ostinati a volerandare in Sicilia: BertaniBixioCrispi e tanti altri minoriche nella VillaSpinola tennero con lui una specie di gran Consiglioil 30 aprileanniversariodella sua bella vittoria del '49contro i francesisotto Roma. In mezzo a quelconsessotra i discorsi roventi di quei patrioticome uomo ispirato da unaluce improvvisaGaribaldi balzò su d'un tratto a dire: "Partiamo. Masubitodomani!" Domani era troppo presto: bisognava pensare ad avere ilegni da navigare! Ma insomma un po' di giornitre o quattrosarebberobastati. Intanto quegli operosi avrebbero raccolta la gente da fuori. Dacchéegli aveva detto: "Partiamo" lasciasse fareche ad eseguire c'erachi ci pensava.
Il Conte di Cavourignorando quella nuova deliberazioneera partito il 1maggio per Bolognaa raggiungervi nel giro trionfale il Recui sperava distrappare l'ultima parola che impedisse a Garibaldi ogni tentativo d'allora e dipoi. Narrano gli intimi del Conte e del Re che si trovavano con essi in Bolognaavere il Cavour manifestato fin l'intenzione di fare arrestar Garibaldise sifosse ostinato a tentar qualche cosae d'andar egli stesso a porgli addosso lemanise non si trovasse chi avesse l'ardimento di farlo. E sarà veroperchéallora egli temeva troppo che l'Imperatore dei Francesicredendosi canzonato daluipigliasse qualche violenta deliberazione contro l'Italia. Ma ormai allaforza delle cose neppur egli poteva più resistere. E saputo ciò che a Genovasi facevastette col Re a Bolognaper non tornare a Torino in quei giorni afarsi tormentare dalla diplomazia. Però prese le sue precauzioni. E temendosempre che Garibaldi volesse fare un colpo contro Romaordinò alla divisionenavale del contrammiraglio Persano d'andare in crociera tra Capo Carbonara eCapo dello Sperone a Sant'Antiocooin altre paroledinanzi al Golfo diCagliari. Gli ingiungeva però di non "adoperar le macchine"; e checosa intendesse di voler dire con ciò non si sa bene orané lo seppe alloraforse neppure il Persano. Poi non tornò a Torino se non la sera del 5 maggioelàda Genovagli piovvero le notizie. Che fare? Adesso non c'era altro chelasciar fare; e giacché la spedizione non si poteva più impedirla senza chesorgessero chi sa quali guai nel paesepensò subito di mettersi sul gioco didominarlae di rispondere alle proteste che lo avrebbero tempestato.

Genova nelgran giornoalto

In Genovasin dagli ultimi di aprilestavano già molti dei più vogliosidi partire per la Siciliae altri ve ne furono chiamati nei primi tre giorni dimaggio. Per le vie di quella città tutta lavorodove la gente va attornosempre con l'aria di chi non ha tempo da perderequei forestieri che riempivanoi caffè e le passeggiate stonavano alquanto. Ma forse nessuna città era adattacome Genova a farvi quell'adunata e a servir di copertura al Governo. Il qualecosìnegli ultimi momentipoté far bene le viste di non accorgersi di nullaproprio come se nulla vi fossee tutto pareva intesoconsentitovoluto dallacittà interama con somma prudenza.
Il 5 maggio ogni cosa era pronta. Allora Garibaldi scrisse al Re cominciando:"Il grido di sofferenza che dalla Sicilia arrivò alle mie orecchiehacommosso il mio cuore e quelle d'alcune centinaia dei miei vecchi compagnid'arme." Pareva che volesse rammentare a Vittorio Emanuele che l'annoavanti egli per il primonel suo discorso del 10 gennaio in Parlamentoavevatrovato la espressione giusta come un'eco delle "grida di dolore"giunte a lui da ogni parte d'Italia. E soggiungeva di saper bene a quale impresapericolosa si sobbarcavama che poneva confidenza in Dio e nella devozione deisuoi compagni. Prometteva che grido di guerra sarebbe l'unità nel nome di LuiVittorio; e sperava che se mai l'impresa fallissel'Italia e l'Europa liberalenon dimenticherebbero che era stata determinata da motivi puri affatto daegoismo. Disseche riuscendoun nuovo e brillantissimo gioiello avrebbe ornatola corona di Lui; ma non celava l'amarezza sua per la cessione della sua terranatale. Ecerto per non compromettere il Refiniva scusandosi di non averglidetto il suo disegnoper tema che egli lo dissuadesse dal fare quel passo.Mesta e solenne letteranella quale era serenamente espresso il dubbio e lasperanza e il sentimento dell'ora. Spiace in essa quel tanto che c'è difinzione: ma insommai tempi erano talida giustificare questo ed altro.
Il Generale scriveva pure all'Esercito italianoesortando ufficiali e soldati astar saldi nella disciplinaa non abbandonare le fila per seguir lui. Scrivevaall'Esercito napolitano per ricordare ai figli dei Sanniti e dei Marsi che eranofratelli dei soldati di Varese e di San Martino. E anche non dimenticava iDirettori della Società dei Vapori Nazionalicui nella notte doveva menar viail Piemonte e il Lombardoscusandosi di quell'atto di violenzaeraccomandandoli al paese perché rimettesse qualunque dannoavaria o perditache loro potesse seguirne.
In tutte quelle lettere e in parecchie altre di quel giornouna frase quaun'altra là rivelavano un sentimento sicuro ma anche una misteriosa tristezza.

Il 5 maggio 1860alto

La sera di quel 5 maggiocoloro che erano destinati a partirericevuto unordine aspettato tantoquale da solo quale con qualche amicocome se andasseroa diportocosì consigliati per non dar nell'occhio alla poliziacominciaronoa uscir da Genova per la Porta Pilasulla via del Bisagno. Andavano alla Foce oa Quartosecondo che loro era stato detto. E trovavano sul loro cammino folledi cittadini di ogni classedonneuominiche senza parere davano lorol'augurioe ciascuno un poco dell'anima sua.
Nino Bixio scese al porto. "Là - scrive il Guerzoni - in una andana tra ilLombardo e il Piemonte e proprio costa a costa tanto da toccarsi coi due vapoririposava una vecchia carcassa di nave condannata da tempoche chiamavano"Nave Joseph". Bixio nella sua mente ne aveva fatta la prima base dioperazione di tutta la mossa. Già da parecchi giorni la Joseph andava ricevendoa poco per volta delle casse misteriosedegli involti sospettiche avevano lepiù strane somiglianze di casse da munizioni e d'involti di fucili... Bixioaveva ordinato che per la sera del 5 maggio tra le nove e le dieciunaquarantina d'uomini si raccogliessero in silenzio su quella navee stessero adaspettare la sua venuta e i suoi ordini. Gli uomini erano parte marinai fedeliparte volontari ma del fiore. Alle nove e mezzo arrivarono sulla Joseph Bixio elo scrittore di queste pagine. Appena a bordo Bixio cavò di tasca un berrettoda tenente-colonnellose lo calò sulle orecchiee disse: - Signorida questomomento comando ioattenti ai miei ordini. - E gli ordini furono: buttarsi colrevolver in pugno sui vicini vaporifingere di svegliarvi la gente di guardiafingere di costringere i fochisti ad accenderei marinai a salpar l'ancoraimacchinisti a prepararsi al loro mestieresgombrarepulire il bastimentoallestirlo in fretta per la partenza. E così fu fatto nel massimo ordine esilenzioe non senza accompagnare di molti sorrisi quella farsa con cui quellaepopea esordiva. Fra tutte queste operazioni se ne andarono quattro o cinqueoree già i primi chiarori dell'alba cominciavano a rompere dalla punta diPortofino. Bixio era inquieto e principiava a perdere anche quell'ultimo avanzodi pazienza che in quei giorni di febbre e rabbia gli era restato. Finalmenteverso le quattro del mattino tutto era prontoe i due piroscafi uscirono dalportogirando verso Quartopunto designato dell'imbarco."
Ma prima di tirar avanti per Quartoi due piroscafi si pigliarono su una partedei Milleche stava alla foce del Bisagno. Ivi erano avvenute delle scenepietose di questa sorte. Tra quei giovani c'era un Luzzatto da Udinecui fudetto che tra la folla si aggirava la madre suavenuta così da lontano acercarlo. Voleva benedirlo o tirarselo via da quel cimento? Il giovanetto le sifece incontroe le andò tra le braccia; ma la sua prima parola fu di pregarlaa non gli dir di tornarseneperché a lui sarebbe stato mortale il dolore dipartir lo stesso dopo averla disubbidita. Altri padrimadri sorelle andavanotra quei gruppipregandoscongiurandoincuorandoe alla fine dando il bacioquasi della morte; e quando i due vapori apparvero e accolsero quei giovanichiaveva assistito a quelle scene dovè tornarsene nella città col cuore quasisollevato.
Uguali cose avvenivano a Quarto. Là verso le dieci c'era folla anche più fittache alla foce. Tutta la via che si svolge intorno a quel piccolo seno di acqueera stipata. Nella villa Spinola entravanodalla villa uscivano frettolosi unodopo l'altro incessanti messaggeri; a ogni momento si faceva tra la folla gransilenziosi udiva dire: "Eccolo!" Nonon era ancora Garibaldi. Poila folla fece un'ultima volta largo più agitatatacquero tutti: finalmente eraLui!
Garibaldi attraversò la strada seguìto da Turr e da Sirtoriallora giàcolonnellie per un vano del muricciolo rimpetto al cancello della Villadiscese franco giù per gli scogli. E cominciarono i commiati. Tra gli altribello e forte è narrare quello di uno Stefano Dapino cui suo padrevecchioamico di Mazzini e dei fratelli Ruffiniaveva accompagnato fino a quel passo.Quel padre aveva con sé anche un altro figliuolo più giovane. Conversavanotranquilli come se il figlio partisse per una caccia; poi senza parolesenzasospiri il padre abbracciò il figliostettero un poco stretti prima essi duepoi tutti e trefinché Stefano che aveva alla spalla la carabinabaciò ilfratellogli fece segno come a raccomandargli il padresi staccò da loro ediscese per dove scendevano alle barche i suoi compagni. E quel padre equell'altro figlio si persero fra la follaportando alla casa lieta di altregioiericchezzabellezzaonorequell'amara gioia d'esser stati a quellafortissima prova.
Piccole cose tra le grandinelle ore dell'attesaqua e là per e vie diQuartosugli usci delle casupolequelli che dovevano partire si sentivano daredai pescatoridai marinaicerti consigli semplicima d'amore.
Avete mai navigato? - No. - Se temete di avere il mal di mareappena a bordocoricatevi supino e state sempre cosìnon patirete. - Se vi daranno delbiscotto mangiatene pocoe bevete poi pochissimose no guai! - Sbarcherete inSiciliaoh sbarcherete! Ma... vini traditori laggiù! - E la gente? - Comenoi... però molto facili a tirare... Ma chi la rispetta... Soprattutto lafamiglia bisogna rispettare laggiù... Ma voi avrete altro pel capo... Coraggio!-
A poco a poco tutti discesero nelle barchequeste presero il largo. Verso leundicid'una di queste già più in altosi udì una voce limpida e bellachiamare "La Masa!" E un'altra voce rispose: "Generale!" Poinon si udì più nulla. E su quell'acqua stetterro le barche a cullarsiaspettando. Quelli che v'erano su parlavano del Governodi Cavourdi VittorioEmanueledell'accordodel disaccordo tra loro e Garibaldi e della finzione; esiccome le ore passavanoi più cominciavano a temere che i vapori nonvenisseroe che si dovesse tornare a terra mortificatifors'anche a farsiarrestare. Oh quel Cavour! La voleva vincer lui!
Ma quando furon visti i segnali rossi e verdi dei due legnie poi i legnistessi venir con già a bordo la gente che v'era stata imbarcata alla foce:quelle barche scoppiarono di grida di gioia. In un lampo vogarono ai due legni;e in meno di mezz'orachi sul Lombardochi sul Piemontequell'altro mezzomigliaio di uomini furono sucome ognuno seppe ingegnandosi; bracciaganciscalecordetutto fu buono a salirvi.

La Partenzaalto

Bellissima fu l'alba di quella domenica 6 maggio 1860. Il mareun po' mossodurante la nottesi era chetato. Da bordoa guardare indietrosi vedevano lacollina del Bisagnolàcupa nella fredda ombra; e lontanoprofilatinell'azzurroazzurro anch'essii monti lungo la riviera d ponente chesfumavano via via verso Savona fin dove se ne perdevano le forme. Le cittadettee le borgate di quella riva biancheggiavano appenae mettevano degli stranisensi di desiderio domestico nella gioia della partenza.
Ma quando i due vapori sbuffarono e i mosseroa vederselo dinanzilà a pruail promontorio di Portofino pareva dire: "Venite pureoltre me lontanamolto lontanasta la terra misteriosache andate a cercare." Dalle navirispondevano all'invito quelle mille anime; vecchi amicicompagni d'armi checercandosi un posto a bordos'incontravanosi abbracciavano e: - Anche tu? Etu? E tu? - gioia d'amarsi meglio per aver sentito e voluto fare una stessa grancosa.
Ma ci fu un momento che dai due vapori Garibaldi e Bixio si scambiarono coiportavoce delle non liete parole. Diceva Garibaldi a Bixio:
- Quanti fucili avete a bordo?
- Mille e cento.
- E di munizioni?
- Nulla
- E le barche di Bogliasco?
Per guardar che si guardasse non si scoprivano da nessuna parte le barche di cuiil Generale chiedevae che si dovevano trovare in quelle acque ad aspettare idue vapori. Eppure quelle barche avevano nella notte imbarcate le armi e lemunizioni raccolte a Bogliasco! Dunque si doveva star là tanto checomparissero? E se in Genova il Governodestato a forza dalle grida di qualcheConsoledovesse di necessità accorgersi che dal porto erano stati menati via idue vapori? Se fosse costretto a spedir una delle sue navi da guerra acatturarlia ricondurli nel portoquando mai si potrebbe poi ritentarel'impresa? Non era di quelle che si fanno due volte. Il generale Turr che inquel momento stava vicino a Garibaldinarra che questi "rimase qualchetempo meditabondoche poi alzò verso il cielo il capo dicendo: 'Anderemoavanti egualmente!' E chestato un altro pocoordinò di navigare versoPiombino."

*

Ora ecco ciò che era avvenuto. La sera avanti un manipolo di giovanigenovesiscelti dal Bixio e dall'Acerbierano stati mandati al ponte di Sori.- Là - aveva lor detto Bixio - troverete due uomini coi quali vi riconosceretequesta parola d'ordine che vi do. Essi vi consegneranno le casse raccolte aBogliasco; con quelle vi metteranno nelle barchee vi condurrannocome siamointesia trovarci. -
Chi erano i due uomini? A qualcuno di quel giovani balenò il dubbio chepotessero essere quegli stessi che già nel 1857 avevano guidate le barchecomandate da Rosolino Pilocariche dei fucili e delle munizioni per Pisacaneche doveva passar sul vapore Cagliari. Quegli uomini avevano menato pel golfo ilpovero Rosolino così maleche egli e il gruppo di esuli che aveva seco nonerano riusciti a trovar il vapore su cui Pisacane magnanimo aveva continuatosenz'armi la sua avventura.
Ora se quegli uomini erano forse gli stessi di allora? I giovani mandati dalBixio a Sori avevano ragione di volersi accertare e ne domandarono i nomi. - Avoi non ispetta per ora sapere né il nome né chi vi guiderà - disse Bixio - nédove incontrerete i vapori: andate; tuttosi speraandrà a seconda. - Allorala gioventù aveva imparato a ubbidire fortementee quei giovani si recarono aSoridove trovarono i due uominiche erano proprio quelli dei quali avevanodubitato.
Tuttavia si imbarcarono essi e ogni cosa. Ma di quei due uomini che dovevanoguidarli in mareuno si era già allontanatoe l'altro non volle entrare conloro in nessuna barca. Lo pregaronolo supplicarono e persino lo minacciaronoma egli si slanciò in un leggerissimo canotto a due remie celerissimo siallontanògridando che lo seguissero alla luce del fanale che stava accendendosulla sua poppa. Il fanale stette acceso una ventina di minutipoi si spense; eper quanto quei giovani gridassero dietro a quell'uomoegli non si fece piùvivo. Sperarono che tornassepassarono le ore; e intanto i rematoritutti diConeglianovogarono al largo verso ponente. Benché fosse notte altai giovanisi accorsero di esser condotti male; ma i barcaiuoli giurarono di aver avutol'ordine di andar allo scoglio detto di Sant'Andrea presso Sestri Ponenteche làavrebbero trovato i vapori e che là i due uomini li avrebbero raggiunti.
Durarono così molte orefinché sicuri di essere ingannati costrinsero ibarcaiuoli a volgersi verso levantee quando fu l'alba videro da lontanissimodue vapori verso Portofino. Indovinarono che vapori erano; e allora(l'espressione è di uno di loro che ne scrisse pochi anni dipoi)il lorodolore fu immenso come il mare. Intanto i due uominii due traditori che gliavevano ingannatierano stati tutta la notte a scaricare mercanzie dicontrabbandosete e coloniali; certo approfittando del fatto che i doganierilungo le rive o non v'erano o facevano cattiva guardiaper ordini avuti di nondisturbar nessuno quella notte di misteriosa faccenda.
Se Bixio che aveva dato gli ordini a quei giovanisicuro nella sua fierezza dimandarli a gente dabbeneavesse potuto avere quei due ribaldi là sul suopontechi sa qual pena avrebbe loro inflitta! Egli era uomo da metterseli sottoi piedio da impiccarli all'albero della sua navecome anticamente si facevaai pirati.

L'Ordine delgiornoalto

Dunque i due vapori navigarono via verso Piombino.
E tutto il 6 e la notte appresso e la mattina del 7non ebbero incontri. Ivolontari che a poco a poco si erano messi al posto che ognuno aveva saputotrovarsie sopra coperta o sotto nelle sale dei vaporipassavano le oredormendoconversandoleggendo. Ma a mezza mattina quelli che stavano sulLombardofurono chiamati in copertadove dal ponte di comando fu loro lettol'ordine del giorno. Diceva così:

"La missione di questo corpo saràcome fubasata sull'abnegazione lapiù completa davanti alla rigenerazione della patria. I prodi Cacciatori delleAlpi servirono e serviranno il loro paese con la devozione e la disciplina deimigliori militantisenz'altra speranzasenz'altra pretesa che la soddisfazionedella loro intemerata coscienza. Non gradinon onorinon ricompenseallettarono questi bravi; essi si rannicchiarono nella modestia della vitaprivataallorché scomparve il pericolo; suonando l'ora della pugnal'Italiali rivede ancora in prima filailarivolenterosie pronti a versare il sangueloro per essa. Il grido di guerra dei Cacciatori delle Alpi è lo stesso cherimbombò sulle sponde del Ticinoor sono dodici mesi: 'Italia e VittorioEmanuele'e questo grido pronunciato da voi metterà spavento ai nemicid'Italia."

Quella lettura destò qualche mormorio qua e là tra le gente del Lombardo;ma la nobiltà dei certe frasi e il nome del Generale che le parlavaimponevanosilenzio ad ogni passione. Il motto 'Italia e Vittorio Emanuele' scontentavamoltissimii qualirepubblicani di fedenon avrebbero voluto sentirsi legareda quelle parole. Ma non vi furono gravi rimostranze. A quell'ora stessalostesso ordine del giorno era letto sul Piemonte e vi faceva lo stesso effetto.

A Talamonealto

Intanto i due vapori costeggiavano quasi la terra. Pareva già passato tantotempo dalla partenzache i meno espertivedendo una torre su cui sventolava labandiera tricolorecredettero di esser già in Siciliae che quella fosse labandiera della rivoluzione trionfante. Ma non erano che in Toscana. Quella torree quel gruppo di case che le stavano intornosi chiamavano Talamone. E quandole navi furono là vicinissimefu vista una barca vogare loro incontro: e nellabarca stava un ufficiale con in capo un enorme cappello a felucache nonlasciava quasi vedere un altro ufficiale che quello aveva seco. Erano icomandanti del forte e del porto. Scambiarono dei saluti col Piemontevimontarono suvi si trattennero un poco con Garibaldipoi tornarono nella lorobarca; e poco appresso i due vapori gettavano l'ancora in quel porto. IviallalestaGaribaldi discese a terra col suo stato maggiorevestito da generaledell'esercito piemontesecome l'anno avanti in Lombardiae come se fosse interra sua fece sbarcare i Mille.
Il villaggio fu invaso. Quei poveri abitantimarinaipescatoricarbonai dellaMaremmasi trovarono con le case messe sossopra da quella gente che pagavamavoleva mangiare. Forse pensavano che anticamente così s'erano visti invasi iloro padri dai corsari; ma saputo chi erano quei forestieri e l'uomo che liconducevasi sbrigavano con gioia per contentarli. Garibaldi undici anni avantiera passato per la Maremmae vi aveva lasciato la sua leggenda.
Intantotra quei volontarii più vaghi delle cose belle contemplavano ilpaesaggio. A guardare il mare vedevano l'Elbala PianosaMontecristoilGiglioquasi in vasto semicerchio come a una gran danza: a guardar verso terravedevano il monte Amiatae i più colti indovinavano in quelle lontananzeSantafiora e Sovananomi pieni di storia. Tra l'Amiata e il marefacevatristezza un lembo della Maremma infelice.
Là doveva essere Orbetellofortezza dell'antico Stato dei Presidii fondato daCarlo Vquando spenta la repubblica di Siena e dato il suo territorio a Cosimode' Medicivolle tenere per sé quel lembo di dominiodiffidando certo delpopolo senese e più del fiorentino che aveva fatto la meravigliosa difesa nel1530 contro le sue milizie. Ora quel lembo di terradopo vicende molteeratoscanoitalianolibero. Era stato anche del Re di Napoli fino al 1805. Eccoche ora vi faceva sosta Garibaldiper pigliarvise si può dir cosìl'abbrivioa levar via dal trono gli eredi di quei Re.
In faccia a Talamone verso sudforse a dieci chilometri di mareicontemplatori ammiravano il monte Argentaro selvoso sulle sue cimeche guardateda quell'umile spiaggia parevano eccelse. Gli stava ai piedi la cittadetta diSanto Stefano. Ricordo allora quasi frescoivinel 1849s'era fatto portareda Talamone in una barca da pescatori Leopoldo IIfuggito da Firenze con la suafamiglia. Da Santo Stefano con ignobili infingimentiingannati i toscanierapoi partito per Gaetadove aveva cospirato per far venire gli Austriaci inToscana. E gli Austriaci lo avevano servito a rimetterlo in trono. Ma adessoerano appena passati undici annisi era avverata la minaccia fattagli dai piùnobili uomini del paese; ed egli da un anno se n'era dovuto andar via persempre.
In un gruppo d'eruditi raccolti all'ombra di un ciuffo di olivia ridosso diTalamonesi parlava d'una battaglia vinta là attorno dai Romani contro i GalliCesati. Quarantamila morti! Ma come mai tanta strage con l'armi d'allora? Certodoveva avvenire nell'inseguimento dei vinti. E dai Galli passavano a dir diMario. Anche Mario reduce da Cartagine per tornarsene a Romaera sbarcato lì aTalamone. Ora Garibaldi non era quasi un Mario buono? E Roma non era il suopensiero? Se gli fosse venuto in mente di andare anch'egli di là a Roma! Nonera egli il Generale della repubblica romana? Erano ardenti discorsi.
Maa questo propositonascevano in quello e anche in altri gruppi discussionivive sull'ordine del giorno udito a bordo il mattino. Molti non si sapevanoliberare da certo scontento che aveva lasciato loro il motto monarchico; ma ladisciplina volontaria era forte. Difatti si staccarono poi dalla spedizione e sene tornarono di là alle loro casesoltanto sei o sette giovani cari. Seguivanoil sardo Brusco Onnis che del motto 'Italia e Vittorio Emanuele' era rimastoquasi offeso. Repubblicano inflessibilesi era imbarcato a Genova sperandoforse che Garibaldiuna volta in maresi ricordasse d'essere anche eglirepubblicano; ma delusoora se ne andavae se ne andavano con lui quei pochiperò senza che fosse fatto a loro nessun raffaccio. Rinunciavano per la loroidea ad una delle più grandi soddisfazioni che cuor d'allora potesse avereeil sacrificio meritava rispetto.

I Millealto

Ma cosa si stava a perder tempo in Talamonementre in Sicilia la rivoluzionepericolavae si potevagiungendovitrovarla spenta? Questo lo sapevaGaribaldi.
Intanto su quella spiaggia i Mille si vedevano bene tra loro la prima voltacome in una rassegna.
Orachi parla di quei tempi e di quelle cosedice presto: il 1860la Siciliainsortail gran nome di Garibaldiquello di alcuni suoi illustrila partenzada Quartola traversata maravigliosalo sbarco a MarsalaCalatafimiPalermoe la liberazione finale; due o tre date e un numero d'uominipochi più diMillee per la storia in grande è quasi tutto.
Ma quei Mille chi erano? Che cosa erano? Non certo una specie di compagnia diventura all'antica; non una parte di vecchio esercito costituitostaccata ascelta o per caso; nessuna legge li obbligavanon erano soldati di professionenon avevano tutti quella media di età che di solito hanno i soldati; non unacultura comune ed ugualee nemmeno una divisa uniforme. Vestivano quasi tuttialla borghese e alle diverse foggedalle qualia quei tempisi riconoscevanoancora a qual regione d'Italia e a qual classe sociale uno appartenesse. Eparlavano quasi tutti i dialetti della penisola. Eranoper dir cosìpartedell'esercito popolare militante di cuore nel partito rivoluzionario: vecchifigliuoli di giacobinidi napoleonididi Murattisiti; uomini di mezza etàeducati dalla Giovane Italiatra le congiure e le insurrezioni; giovani neiquali la letteratura classica e la romantica s'erano fuse in una bellatemperanza a fecondare l'amor di patria. Con essidegli artigiani che dallediverse scuole politiche e dai fatti belli dell'ultimo decennioerano statidestati al concetto della nazione.
Di loro fu subito detto che erano eroi favolosipazzi sublimied altre similiiperbolie anche delle ingiurie. Invece di volenterosi com'essi ve n'erano inItalia a migliaia; ma ad essi intanto era toccata quella fortuna. Uno che vi erae dei miglioriscrivendone poi nella vita di Garibaldicon quattro pennellatealla brava disse che erano un popolo misto "di tutte le età e di tutti icetidi tutte le parti e di tutte le opinionidi tutte le ombre e di tutti glisplendoridi tutte le miserie e di tutte le virtù" e vi notò "ilpatriota sfuggito per prodigio alle forche austriache e alle galere borbonicheil siciliano in cerca della patriail poeta in cerca d'un romanzol'innamoratoin cerca dell'oblioil notaio in cerca di un'emozioneil miserabile in cercad'un panel'infelice in cerca della morte: mille testemille cuorimille vitediversema la cui lega purificata dalla santità dell'insegnaanimata dallavolontà unica di quel Capitanoformava una legione formidabile e quasifatata."
Così li ritrasse il Guerzonicaro al Generale e vivido ingegnoe fu felicepittore.
Narrar di lorodescriverne gli aspettifarne rivivere la fisionomia moraleresuscitare coi ricordi i loro sentimenti e quelli dell'epoca ora quasi estintiè un giusto servigio che vuole essere reso alla storia. La quale si avvia a nonpiù fermarsi solo nelle reggie per trovarvi le dinastieo nei campi perdescriver battaglie e celebrare capitani; ma già accoglie nelle sue pagine ilpersonaggio popoloche ai fatti col proprio sangue e col proprio danaro dà ilcuore. E il cuore governa il mondoe il sentimento fa i veri miracoli dellastoria.

*

A colpo d'occhiosi poteva dire che per un quarto quei Mille erano uominifra i trenta e i quarant'anni e per un altro bel numero tra i quaranta e icinquanta; forse dugento stavano tra i venticinque e i trenta. Gli altrii piùerano tra i diciotto e i venticinque. Di adolescenti ce n'erano una ventinaquasi tutti bergamaschi. Alcuni qua e là tra quei gruppi parevano trovarvisiper curiositàperché‚ vecchi oltre i sessanta; e invece vi stavano aspendere le ultime forze di una vita tutta vissuta nell'amore della patria. Ilvecchissimo passava i sessantanoveaveva guerreggiato sotto Napoleone e sichiamava Tommaso Parodi da Genova; il giovanissimo aveva undici annisichiamava Giuseppe Marchetti da Chioggiafortunato fanciullo cui toccava nellavita un mattino così bello! Seguiva il medico Marchetti padre suoche se l'eratirato dietro in quell'avventura.
In generalecerto più della metà erano gente colta; anzi si può dire chesoldati più colti non mossero mai a nessun'altra impresa. Alcuni di essiivecchiavevano combattuto nelle rivoluzioni del '20 del '21 del '31; moltinelle guerre del '48 e del '49 e nelle insurrezioni di poi. Nella guerra del1859 avevano militato quasi tuttivolontari nei reggimenti piemontesi o tra iCacciatori delle Alpi sotto Garibaldi. E quasi tutti avevano tenuto il broncioal paese perché‚ non si era mosso quanto avevano speratotanto almeno che ilPiemonte non avesse avuto bisogno dell'aiuto francese. Pronti essi sempre a darla vitacredevano che tutti dovessero esserlo come loroe che la rivoluzionebastasse a vincere i grandi eserciti e a far cadere le fortezze. Per essi a ognimodoquell'aiuto era stato un gran doloreperché lo aveva recato Napoleoneche allora chiamavano con forte rancore: 'l'Uomo del 2 dicembre'.
Ma v'erano pure certuni che ragionando con la storia per guidasebbene un po'da romanticitrovavano che anzi l'aiuto francese era stato ammenda giusta d'unacolpa antica. Non era stata la Francia di Carlo VIII la causa prima della servitùtre volte secolare d'Italia? I francesi del 1494 avevanoper dir cosìgettatoil dadoprovocando altri a giocarsi con loro il possesso d'Italia: oraquellidel 1859 erano venuti a riparare il danno fattole dai loro avi. Qualcosa diprovvidenziale pareva di vederlo sin nelle date capitali di quella storia. Nonera finita la gara antica proprio nel 1559con quel tal trattato di CastelCambresis cheesclusi i Francesiavevano messo l'Italiadirettamente oindirettamentequasi tutta nelle mani degli Spagnuoli? Ed ecco che dopotrecento anni giustila Francia era venuta a strappar la Lombardia dalle manidell'Austriaerede in qualche guisa degli Spagnuoli. E giusta era venuta conalla testa un imperatore di sangue italiano; come era stato un italiano EmanueleFilibertocolui che trecent'anni avanti aveva finita la gara antica traSpagnuoli e Francesivincendo per la Spagna a San Quintino. Non era quasi dadire che gli italiani d'allora si fossero pigliata la sola vendetta possibilecontro i Francesi? Questi per primi li avevano disturbati mentre lavoravano aresuscitare il sapere antico per sé‚ e per l'Europa; ed essiall'ultimoavevano dato il genio di un loro guerriero per farla finita a beneficio del loronemicodovesse pure essere poi peggiore di essi. Adesso quell'Italiano cheimperava in Francia ed era venuto con centocinquantamila soldati pareva unriparatore. Anche l'Europa intera non sembrava fare ammenda di qualche suovecchio torto? Se essa gridava ma lasciava che in Italia gl'italiani facesserociò che loro sembrava meglionon poteva dire che si contenesse a quel modo perun tacito consenso di giustizia verso il popolo che trecent'anni indietro leaveva dato i frutti del proprio studiol'arte suae per essa aveva scoperto laterra e aperte le vie a studiar il cielocon Colombo e con Galileo?

*

I giovani dai venti ai venticinque anni quasi tutti sentivano in sé‚ vivie presenti i fratelli Bandiera con la loro storiaintesa nella primaadolescenzatra le pareti domestichedai padri e dalle madri angosciate.Quell'Emilio di 25 anniquell'Attilio di 23disertati a Corfù di sulle naviaustriache; la loro madre corsa invano colàper supplicarli di smettere illoro disegno d'andar a morire; le loro risposte a Mazzini che li consigliava diserbarsi a tempi migliori; e poi l'imbarcoil tragitto nell'Ionio e lo sbarcosulla spiaggia di Crotonepresso la foce del Neto- che nomi! - e il primoscontro a San Benedetto coi gendarmi borbonicie le plebi sollevate a suon dicampane a stormo contro di loro gridati Turchi; e il secondo scontro a SanGiovani in Fiore- poesiapoesia di nomi! - e l'inutile eroismo contro ilnumeroe la cattura e la Corte marziale e le risposte ai giudici vili e lacondanna e la fucilazione nel Vallo di Rovito; tutto sapevanotutto come cantidi epopea studiati per puro amore. E suonava nei loro cuori la strofa amara ederoica del canto di Mameli:

L'inno dei forti ai forti
Quando sarem risorti
Sol li potrem nomar.

Un po' più in qua negli anniquei giovani avevano sentito il grido di PioIX: "Gran Diobenedite l'Italia!" andato a suonare fin nei piùriposti tugurii. Avevano viste le rivoluzioni nelle qualitroppo fanciullinonavevano potuto cacciarsi; e le guerre del '48 e del '49e le cadutee ledisperazionie le speranze rinate; e nel '57 la gran tragedia di Carlo Pisacanecoi suoi trecentotra plebi mutatesi anche allora in furie contro di loroandati per redimerlecombattutiaccerchiatioppressimorti.
Ma dunque tutte le spiaggie del Regno erano tombe aperte per chiunque tentassedi portarvi un po' di libertà? Cresceva la febbre in quei cuori.
E ve n'erano che avevano concepito il pensiero di andar laggiù per un ricordodi scuola di qualche anno addietro: un luogo dell'Odissea e dell'Eneide; o ilracconto letto in Plutarco della libertà data dai Siracusani ai prigionieriateniesisolo per averli sentiti cantare i cori di Euripide; o un episodiodella guerra servile dei tempi romani. E v'era chi più che delle cose anticheera pieno delle recentiper aver letto nella storia del Colletta i supplizi delCaracciolo e del Sanfeliceo la fine della repubblica Partenopea nel 1799.
Altri ancora s'era inebriato dei canti popolari siculiuditi nella melodia vivadi qualche volontario siciliano conosciuto l'anno avanti nei Cacciatori delleAlpi. Ve n'era fin unoe lo narravache aveva avuto la spinta a quel passo daun fatto da nullama che sul suo cuore aveva potuto più che la scuola e ilibri. Un giorno di luglio dell'anno avantistando egli in Brescia alla portadi uno degli ospedali zeppi ancora dei feriti di Solferino e di San Martinoaveva veduto fermarsi un carro di casse d'aranci e di filacciche e di bende.Venivano dalle donne di Palermo! O santa carità della patria! Dunque in quellaterra lontana si pensava a chi pativa per tutti? E aveva anche inteso dire daimedici che quelle cose erano uscite dall'isola trafugateperché‚ la poliziadi laggiùguai! Dunque c'era in Italia una tirannide più cruda di quelladell'Austria? Ed egli aveva fatto voto di andare a dar la sua vita laggiùsemai fosse venuta l'ora di levar quella tirannide dal mondo.

Laformazione del piccolo esercitoalto

Sapeva Garibaldi ciò che facevanè in Talamone stava certo a perderetempo. Ivi doveva trovare le munizioni da guerra o andar avanti lo stesso apigliarle in Sicilia al nemico. Ma frattanto vi faceva dar forma allaspedizionecomporre le compagnie combattenti e tutti i corpi che deve avere unesercito per entrar in guerra. Non poteva già scendere in Sicilia alla testa diuno stormo disordinato!
Al suo quartier generale diede per capo il colonnello Stefano Turr che alloraaveva trentacinque anni. Da giovane tenente dell'esercito austriacoil Turr erapassato in Piemonte l'anno '49; sapeva cos'era stato il dolore della suaUngheria e dell'Italia quell'anno; sapeva cosa voleva dire essersi trovatocondannato a morte e liberato quasi nell'ora del supplizioe cos'erano le gioiee le ansie del cospiratore nell'impaziente attesa della riscossa. Avevacombattuto l'anno avanti sotto Garibaldi in Lombardiae a Tre Ponti avevasparso il suo sangue tra i Cacciatori delle Alpi. Bellissimo uomoalto edirittocon due gran baffi e un gran pizzo scurie occhi pensosi ma vigili emobilissimi sotto la fronte quadrata a torre. Novecento anni avanti sarebbestato un fiero capo di quegli Ungheri che vennero a turbare il regno diBerengario; ma oracon la gentilezza acquistata dalla sua gente nei secoli e lasua nativaera un cavaliero che poteva tenere scuola d'ogni cortesia. Finitaquella guerra divenne diplomaticoapostolo di lavoro e di pace. Scavò canalidi navigazione nella sua Ungheriatagliò l'istmo di Corinto; va ancora pelmondo gridando all'umanità la concordial'amore e il bene.
Ungherese come il Turrun po' più giovane di luiaiutante anch'esso delGeneralev'era il Tukoryche veniva ad offrir l'ingegno e la vita aquest'Italiala qualenel Cinquantanovein certa guisa aveva disdetto lafratellanza di sventure e di speranzeche l'avevano legata fino allora allapatria sua. Diceva egli così senza raffaccioma con dolore. Egli avevamilitato per la Turchia contro la Russia durante la guerra di Crimeae s'eratrovato a difendere la fortezza di Kars contro quei soldati dello Czar che nel'49 gli avevano rovinato la patria. Servire un barbaro per odio contro un altrobarbaro gli doveva essere stato grande strazio; ma con Garibaldi a faticare perl'Italia era quasi felice. Però s'indovinava che era molto deluso del mondoemorire come morì poi a Palermo non gli dovette parere amaro.
Poi c'era il Cenni di Comacchiouomo di quarantatré anniavanzo di Roma edella ritirata di San Marino; uno tutto fremitiche ad averlo vicino pareva dicamminar col fuoco in mano presso una polveriera. Amico del Cenni v'eral'ingegnere Montanari di Mirandolaanch'egli avanzo di Romache avevatrentott'anni e ne mostrava cinquanta per la tetraggine che gli avevano impressale meditate sventure del paese. Anche aveva molto patito nelle carceri diMantova e di Rubiera. Ma contrasto quasi d'arte gli stava a lato un senesecheda giovane aveva fatto versisembrati al Niccolini degni del Foscolo. Nei suoiventisei anni bellissimo e forteera sempre gaio come se gli cantasseun'allodola in core. Era quel povero Bandiche cinque ferite di piombo nonpoterono poi uccidere sul colle di Calatafimi; e doveva campare ancoratrentacinque anniper essere ucciso quasi vecchio e a ghiadoda uno a luisconosciuto.
E v'era Giovanni Bassonizzardoombra più che segretario del Generalech'egli aveva visto sublime a Romaumile ma ancora più sublime da poverocandelaio alla Nuova York. E c'erano il Crispiallora poco conosciutoe l'Eliaanconitanoche poi a Calatafimi fu quasi ucciso mentre si lanciava a coprirGaribaldi. C'erano il Griziotti pavese di trentott'annimatematico di bellamente ma di cuore più bello ancora; e il Gusmaroli di cinquantaantico parrocodel Mantovanoche come l'eroe dell'Henriade andava tra quelli che uccidevanosenza difendersi e senza mai pensare ad uccidere. Ma il tocco michelangiolescolo metteva in quel gruppo Simone Schiaffinobel capitano di mareche parevaandasse studiando Garibaldiper divenire simile a lui nell'anima come glisomigliava già un po' nel volto; biondo come luiassai più aitante di luicon un petto da contenervi cento cuori d'eroe.
Allo Stato Maggiore generale presiedeva il colonnello Sirtori. Antico sacerdoteaveva chiuso per sempre il suo breviarioportandone scolpito il contenuto nelcuore castoe serbando nella vita la severità e la povertà dell'ascetaclaustrale. Spirito rigidocuore intrepidoingegno poderosonel Quarantanovecon l'Ulloa napoletanoera stato ispiratore del generale Pepe nella difesa diVenezia. Poi esule in Parigiaveva visto indignato trionfare sull'uccisarepubblica Napoleone III. E la vita gli si era fatta un lutto. Non avevaperdonato all'Imperatore il 2 dicembreneppure vedendolo poi scendere nelCinquantanove con centocinquantamila francesi a liberargli la sua Lombardia;anziantico soldato della patria s'era astenuto dal venire a quella guerraimperiale. Ma la guerra stessacom'era seguitagli aveva insegnato a nonilludersi più. Non aveva guari speranze che quell'impresa si potesse far bene;consultatol'aveva sconsigliatama dichiarando che se Garibaldi ci si fosserisoltolo avrebbe seguito. Ed ora a quarantasette anniera lì con quella suafaccia patitaincorniciata da una strana barba ancor biondaesile alquantodella personasilenziosoguardato come se portasse in sé qualcosa di sacroforse le promesse dell'oltretomba. Pareva il Turpino di quella gesta.
Da lui dipendevanocome capitaniun Bruzzesi romano di trentasette anni; ilmatematico Calvino esule trapanese di quarant'annionore dell'emigrazionesiciliana; Achille Maiocchi milanese di trentanovee Giorgio Maninfiglio delgran Presidente della repubblica venezianache non ne aveva ancor trenta.
Ufficiali minori seguivano Ignazio Calona palermitanoun gran bel sessagenarioche a guardargli in viso pareva di leggere la poesia del Meli; il mantovanoingegner Borchetta di trentadue anni gran repubblicano; ultimo v'era un giovanetenente dell'esercito piemontesedisertato a portar tra i Mille il suo cuore.Questi doveva morire a Calatafimi sotto il nome di De Amicisma veramente sichiamava Costantino Pagani.

*

E poi veniva il grosso del piccolo esercito.
Alla testa della prima compagnia chi se non il Bixio?
Era quel Bixio che nel Quarantasettein una via di Genovafattosi alle brigliedel cavallo di Carlo Albertogli aveva gridato: "Dichiarateo Sirelaguerra all'Austriae saremo tutti con voi!" Nel Quarantotto era volato inLombardia con Mameli; con Mameli era stato a Roma dove era parso l'Aiace delladifesae il 30 aprile vi aveva fatto prigioniero tutto un battaglione difrancesi. Poi aveva navigato portando per gli oceani le sue speranze. Ma nelCinquantanove aveva riprese le arminon più riluttante a fare la guerra regiae facendola bene: adesso era capitano del Lombardoma in terra avrebbecomandata la prima compagnia.
Il Dezza ingegnere e il Pivache dovevano divenire generali dell'esercitoitalianoerano suoi luogotenenti. Marco Cossovichvenezianouno che nel '48aveva concorso a levar l'arsenale agli Austriacie Francesco Buttinoni daTreviglio provato già nel '48 e nel '49erano loro sottotenentitutti equattro già chi di trentadi trentacinque o trentasei anni; e sergenti esoldati benché fior d'uomini tuttibadassero bene con chi avevano da farechécon Bixionon dico paurosima solo inesperti o disattenti o svogliatic'erada essere inceneriti.
Ma ogni dappoco sarebbe divenuto un valente anche solo pel contatto con sergenticome erano Ettore FilippiniEugenio SartoriAngelo RebeschiniEnrico Uzieletra commilitoni come Giovanni CapurroEmilio EvangelistiEnrico Rossettiealtri molti che Bixio aveva impressi del suo sigillo. E poi vi erano nellacompagnia Pietro SpangaroRaniero TaddeiAntonio Ottavigià ufficiali digrido che per nobile compiacimento si erano lasciati fondere con la massa deisemplici militie vi facevano scuola di virtù militari.

La seconda compagniadetta dei livornesi perché di Livorno era JacopoSgarallinoil più popolare dei suoi ufficialie di Livorno erano i suoisergentifu affidata al colonnello Vincenzo Orsini. Questi non veniva dallastorica famiglia Orsini di Roma e neppure da quella romagnola da cui uscìFelice Orsiniuomo allora di recente terribilitàper le bombe che avevalanciate in Parigi contro Napoleone IIIe rimpianto per la nobile vita cosìsacrificata e per la rassegnata morte sul patibolo. Il colonnello garibaldinoera di famiglia palermitanauomo già di quarantacinque anniufficialedell'artiglieria borbonica da giovanepoi affiliato alla Giovane Italiapassato al servizio dell'isola sua nella rivoluzione del '48cresciuto conessacon essa caduto nel '49. Da quell'anno era vissuto esule negli eserciti diTurchiasalendovi a colonnello dell'arma ne' cui studi era stato allevato.Venuto il '59era tornato in Italiae adesso era lì a riportar il braccioalla sua Sicilia. Prevalevano nella compagnia per numero gli operaianch'essiperò uomini intelligentiche sapevano bene qual passo avevano fatto: e i piùerano toscanie portavano nomi i nobiltà popolaresca antica.

Per la stessa ragione per cui la seconda compagnia fu chiamata dei livornesila terza poteva dirsi dei calabresi perché di Calabria erano il barone Stoccoche la comandavaverde vecchio di cinquantaquattro annie Francesco SprovieriStanislao LamensaRaffaele PiccoliAntonio Santelmo suoi ufficiali. V'eranoinquadrati degli uomini insigni come Cesare BraicoVincenzo CaronelliDomenicoDamisDomenico e Raffaele Mauro fratelliNicolò MignognaAntonio PlutinoLuigi Miceli; e avvocati e medici e ingegnerie futuri deputatisenatoriministri e generalitutti fra i trentacinque e i cinquant'annitutti diCalabria e di Puglia. Pareva la compagnia dei savi!

La quarta toccò a Giuseppe La Masasiciliano di Trabiaantico all'esiliogià quarantenne. Era un singolarissimo uomo. Biondo quasi ancora come ungiovinetto e di carnagione che doveva essere stata roseafinissimo neilineamenti del voltopiù che un siciliano sembrava uno scandinavo. Certo avevanelle vene sangue normanno. Poeta improvvisatoregiureconsultoagitatored'idees'era fatto mandar via presto dall'isola natiae a Firenze nel '47aveva stretto amicizia col fiore dei patriotti. Doveva aver sentito di ségrandi cose e grandissime averne agognate; e fino a un certo segno le avevaconseguite. Si diceva che nel gennaio del '48 avesse decretato lui larivoluzione di Palermoper il 12 di quel mese precisogenetliaco del Refirmando audacemente un proclama di sfida col proprio nome per un Comitato chenon esisteva. Ma non era vero. Però la rivoluzione era scoppiataed egli nellaguerra che n'era venuta tra Napoli e la sua Sicilia era stato Capo dello Statomaggiore dell'esercito. In un intermezzo di quella aveva condotto i CentoCrociati isolani alla guerra di Lombardia; poifinita male ogni cosa nell'isolacome altrovesi era rifugiato in Piemonteaveva scritto libri di guerrainfaticabile. Pochi giorni avanti la spedizione dei Millequando Garibaldiesitava a fare la impresaegli si era offerto di condurlae l'avrebbe condottacon grande animose non forse con grande fortuna. Però non lo avevano volutolasciar fare neppure i siciliani. Pareva ambizioso. Un po' di quell'avversioneche poi lo tribològià gli si manifestava controe forse per questa non ebbesotto di sé in quella sua compagnia ufficiali di nome. Ma aveva nel quadro de'suoi sott'ufficiali dei giovani eminenti. Vi aveva Adolfo Azzi da Trecentadiventitré anniche con Simone Schiaffino si era diviso l'onore di far datimoniere a Bixio; vi aveva l'avvocato Antonio Semenzamonzascoche nell'animoaveva tutta l'opera di Mazzinie Francesco Bonafinidi Mantovache riassumevain sé tutta la vigorosa gentilezza della sua regione. E nella compagnia s'eranoconcentrati quasi tutti i brescianiforse perché del bresciano egli avevapreso qualche cosa. Nel '57 aveva sposata la duchessa Felicita Bevilacqua suafidanzata fin da prima del '48donna che lo aveva fatto signore del propriodestinodelle proprie ricchezze sterminatequasi fatto re d'un piccolo regno.Ora egli abbandonava quegli splendoriper tornare all'amore della sua terra. Edera un prezioso elementoe doveva presto mostrarlo in Siciliadove raccolse lesquadre paesane dei Picciottie le tenne ordinate per Garibaldi.

Alla testa della quinta compagnia sonava il nome nizzardo degli Anfossiglorioso pel caduto delle cinque giornate di Milano. Ma ahimè! Il vivo non eradel valore del morto. Però la inquadravano degli ufficiali subalterni chebastavano a raccoglier l'anima della compagnia come un'arma corta nel pugno.V'era tra essi Faustino Tanara del parmigianouna specie di Rinaldo combattenteper la giustizia in un mondo che a lui fu ingiusto e che non seppe mai il cuoreche egli ebbe. In quella compagnianulla di regionale. C'erano un centinaio diuomini di tutte le terre italianevi si sentivano tutte le nostre parlatevisi vedevano delle teste di tutte le tintee di grigie e di bianche parecchie.Mesto a pensarsivi si trovavano parecchi trentini tra i quali GiuseppeFontanaAttilio ZanoliCamillo Zancaniche morirono poi vecchisenza lagioia di aver visto libera la loro bella terra di Trento.

Ma ecco alla sesta il più bello degli otto capitani. Era un biondo ditrentatrè annialtosnelloelegante. Si sarebbe detto che se avesse volutovolaresubito gli si sarebbero aperte al dorso due ali di cherubino. Parlava unbell'italiano con leggero accento meridionalegestiva sobrio e grazioso come unparigino; nel portamento pareva un soldato di mestierenegli atti e neidiscorsi un Creso vissuto tra le delizie dell'artein qualche gran palazzo daMecenate. Si chiamava Giacinto Carininome di borghesi e nome anche di principisiciliani che a luigià nobilissimo della personadava un'aria alta esingolarmente aristocratica. In lui v'era il generale che sei anni dopo avrebbecomandata una brigata italiana all'attacco di Borgoforte. E da lui fu detto ungiorno che se alla morte di Pio IX fosse venutocome venneal seggio di SanPietro il Vescovo di Perugiach'ei ben conosceval'Italia avrebbe avuto ilPapa italiano iniziatore di quella vita che poi non ebbe.
Luogotenente del Carino era Alessandro Ciacciopalermitanouomo diquarant'anniesule da dieci. In mezzo alla compagnia pareva il sacerdote di unareligione non ancora predicata ma già viva nei cuori. Non era tempra da uomo diguerrama da dar la vita per qualche grande amoresì: sarebbe stato capace diber la cicuta e morire conversando di cose alte e pure in mezzo a quei suoimiliti chelui presentesi sentivano sempre come avvolti da un'aura casta epurificatrice.
Altri ufficiali del Carini erano Giuseppe Campo e Giuseppe Bracco-Amaripalermitani anch'essi; quello rivoluzionario per tradizione di famigliaquestoun altezzoso uomo che pareva aristocratico e schivoma era soltanto undistratto. Andava distratto fino nei combattimenti. Altro singolare uomo era ilsottotenente Achille Cepollininapolitanodi quarant'annivecchio difensoredi Venezialetterato anzi professore di lettereche fu visto a Calatafimil'ultima voltae sparito non lasciò di sé traccia sicurané di lui se neriseppe mai più.

Sfilava la settima compagniala più numerosa e la più signorilequasitutta di studenti dell'Università paveselombardi di ogni provinciamilanesielegantiveneti che la grazia natìa temperavano alla baldanza dei compagninati tra l'Adda e il Ticino.
La comandava Benedetto Cairoliche allora aveva già trentacinque anni. Epareva così contentoin quella sua bella faccia di giustoaveva un'aria cosìpaternache uno avrebbe detto: "Certo a costui è stato affidato ognisoldato dalla madre in personaperchése non è necessario sacrificarloglielo riconduca puro e migliore." Ahil contatto con quell'anima! Moltivanno ancora pel mondo che vissero giovinetti sotto quell'occhioin quei giornidi altissima scuola; e ne portarono la luce tra la gentechepur divenutascetticapensa che un mondo migliore debba essere statoe spera che torni.
Era luogotenente del Cairoli il Vigo Pellizzarida Vimercatebello e giocondogiovanedi ventiquattro anninato coi più bei doni di naturama sprezzatoresuperbo fin di sé stesso. Amava la vitaavrebbe potuto averla felicenonvolle. Scherzava con la mortepareva che l'andasse cercando perschiaffeggiarlae che la morte lo scansassetanto era ardimentoso. Sette annidi poile si diede irato a Mentana gridando insulti ai francesi.
Sottotenenti della compagnia erano Biagio Perduca di venticinque anni e NazzaroSalterio di trentasei. Pavese quelloaveva personale giustoviso fiero ma acerti momenti dolcissimo. Non morì in guerra e fu sorte crudeleperché dovevafinire di là a quindici anni con la luce della mente già spenta. Invece ilSalterio visse cinque anni più di luie quando fu l'ora sua cadde di colposano e interonella sua divisa di colonnellocome uno fulminato sul campo.
Furiere della compagnia era il marchese Aurelio Bellisomi da Milanoallora suiventiquattrobellissimo giovane e colto assaimazziniano per fare l'unitànell'ora che passavama forse già vagheggiatore dell'idea del Cattaneocomedi cosa da venir sicura col tempoconseguenza della stessa unità alloranecessaria per conseguire l'indipendenza. Ma non parlava guari delle sue ideefederaliste per non seminare discordie.
In quanto ai sergentiquando s'è detto che si chiamavano Enrico CairoliLuigiMazzucchelliPompeo RizziCamillo Rutapar d'aver detto tutto anche a chi nonportò mai camicia rossa. Erano giovani tra i venti e i ventisett'annie son giàmorti da un pezzo; ma di essi soltanto Enrico finì come erano degni di trovarsia finire tuttiin quel bel giorno di Villa Glorisotto le mura di Romaunocontro venti.
Il caporal furiere era Luigi Fabioil buon Fabio morto poi quasi sessantennema di cuor sempre giovane. E i quattro caporali erano lo studente FerdinandoCadeiche cadde a CalatafimiGiuseppe CampagnuoliAlessandro CasaliLuigiNovaria; quello di Caleppioquesti tre di Pavia. Tra quei compagni di ventitrèanni il Novaria ne aveva trentatrépareva un vecchioma stonava poco perchéversava larga la sua vena di ilaritàsebbene talvolta fosse canzonatoremordacee talvolta pigliasse il tono fin di Tersite.
Così la compagnia era fortemente inquadrata. Contava centotrenta militiventitré dei quali erano proprio pavesi. E tra quei centotrentaventiquattroerano studenti di leggedodici di medicinaquattordici di matematicadue difarmacia. Di commercianti ve n'erano una dozzinadi possidenti e di impiegatiuna trentina. Gli altri erano artigiani e operaima tutta gente anche questache sapeva bene dove andava. Allegri e vibranti di vitaparevano avviati aconquistarsi un regno ognuno per sé. Ma dei più cari a ricordarsi fu ungiovanettoforse non ancora ventenneche durante la traversata cantava sempreaccompagnato da due altri pavesi Giuseppe Tozzi e Luigi Rossi. In quelle nottidel Tirreno empiva il mare e il cielo con le arie eroiche del Nabucco e deiMasnadiericon una voce che faceva tacere tutti e pigliava i cuori. Si sentivache l'anima sua si inebriava di un'acre voluttà di morire; e forse fu poifelice quell'ora a Palermosu d'una barricatacombattendo e cantando: "Sivola d'un salto nel mondo di là" cadde morto. Lo chiamavano Pùdarlamail suo vero nome era Angelo Gilardelli.

E l'ultima era l'ottava. L'aveva raccolta quasi tutta nella sua BergamoFrancesco Nulloche la dava bell'e fatta ad Angelo Bassini pavesecerto didarla a chi l'avrebbe condotta da bravo. Era il Bassini un uomo che se avesselanciato il suo cuore in ariaquel cuore avrebbe mandato luce come il sole; ese lo avesse lanciato nell'infernoavrebbe fatto divenir buono Satana stesso.Così dicevano coloro che avevano già lette sin da allora queste immagini nellepoesie di Petofi. A Roma il 3 giugno del '49nell'ora dello sterminios'eraavventato quasi solo contro i francesi di Villa Corsinipercotendoinsultandogridando a chi volesse ammazzarloe nessuno lo aveva ucciso. Aveva una testache sembrava una mazza d'armima l'espressione della sua faccia ricordavaquella di certi santi anacoreti. Sapeva pocodiscorreva poco; ostinatonell'idea che gli si piantava nel capoa chi lo vinceva di prove gridava:"Appiccati!" ma lo abbracciava e gli dava subito ragioneintenerito edevoto. Per tutte queste sue dotie perché aveva già quarantacinque anniglisi erano lasciati volentieri metter sotto Vittore TascaLuigi Dall'OvoDanielePiccininicoi loro bergamaschiquasi un centinaio e mezzo di quella genteOrobiaquadrata e intrepida sempresia che scelga la patria per suo cultosiache ad altri ideali volga il pensiero: quella che parve ai siciliani formidabileper gli ardimenti sulle barricatee per la serena fidanza nei vini dell'isolabevuti ai banchetti liberamentesenza perdere dignità né d'atti né diparole.
Vittore Tasca aveva trentanove annied era una strana testache con un po' distudi forse sarebbe riuscita d'un artista. Con quelli ch'egli aveva fatti erarimasto qualcosa di mezzo tra un commerciante geniale e un agricoltore.Conosceva le vie del Levante dove era andato per seme di filugelloe si trovavaappunto sulle mosse di tornarviquando sentì della spedizione garibaldina.Allora piantò ogni cosa e seguì Garibaldicui si diè tutto e cui nella tardaetà dedicò quasi bosco sacro una sua villetta in Brembatedove fino al 1892raccolse ogni anno anche da lontano i suoi amicia commemorare in una cerimoniaall'antica il gran Duce.
Il Dall'Ovo che aveva anch'egli trentanove anniera una figura su per giù sulfare del Tascaforse un po' meno aspro ma anch'egli burbero e buono. Non sapevache da quell'umile posto di sottotenente della compagniale sorti della guerrae dell'esercito nazionale lo avrebbero elevato su tantoda fare di lui uncolonnello. E da colonnello doveva invecchiar nell'esercito per uscirne alfine esparire come tantiche si rincantucciarono a rivivere del loro passatodeiquali non si seppe più se fossero vivi o morti.
Ma Daniele Piccinini che più di lui e più del Tasca personificava in sé ilbergamasco cittadino insieme e valligiano e di montecome rimase vivo epresente a tutto il mondo garibaldino! Nato a Pradalunga in Val Serianada unafamiglia radicata tra le rocce e ricca e forte ivi come una volta quelle deifeudatarima però tutta di virtù patriarcali; candido a trent'anni come unadolescentevaloroso come un personaggio dei 'Reali di Francia'allora ancoramolto letti nelle campagne; in quel maggio era disceso dal suo paesello a vederese non si tornasse a far qualche cosa per l'Italiae aveva dato il suo nome ditono guerriero antico alla compagnia bergamasca. Fu lui quello che a Calatafimiin un momento che Garibaldi si trovò tanto vicino ai nemici da farsi colpirefino da un colpo di pietragli si lanciò quasi irato davantie coprendolo colsuo pastrano da pioggia onde la camicia rossa non lo facesse più far dabersaglioosava gridargli che non a lui stava bene andare a farsi uccidere comeun soldato qualunque. "Chi è quel giovane?" domandò alloraGaribaldiguardando quella bella figura. "Piccinini di Bergamo" glifu risposto. Il Generale non se ne scordò piùné il Piccinini lasciò piùdi seguirlo. Due anni dipoiin Aspromonteruppe la spada di capitano per nonconsegnarla intera al capitano dei bersaglieri che lo faceva prigioniero:prigioniero con gli altri compagni garibaldini stipati nel forte di Bard in Vald'Aostasi rannicchiò in una cannoniera dove stette quasi notte giorno alanguire di nostalgia e di dolore civile. Poi nel 1866 volle far la guerra delTrentino da semplice militeperché aveva giurato di non portare spada mai più.Tornato poi a' suoi montinon ne uscì per venti anni. Alla fine si lasciòvincere dal desiderio d'andare a visitare la Sicilia e la Calabria che egliaveva percorse e voleva di nuovo percorrere a piediper vedervi quanto fossemigliorato il popolo e quanto la terra. Non poté giungere fin laggiù. Ungiorno dell'agosto 1889 a Tagliacozzo gli accadde di esser ferito perdisavventura da un giovane amico. E morì làquasi lieto di morire tra queimontidove suona ancora con tanta mestizia il nome della battaglia perduta daCorradino. Ora la sua salma è chiusa nel piccolo camposanto della suaPradalungaa cui salgono i clamori del Serio sonante che passa. Càpita làtalvolta ancora adesso qualche vecchio forestiero che fa chiamar il custode perfarsi mostrar la terra dove sta Daniele. Entra in quel recintocui con forsequattro lenzuola cucite insieme si potrebbe fare un velariosvolta a sinistranell'angolo c'è una cappelletta nuda. "Sta qui" dice il custode.Qui? Pensa il forestiero. E vorrebbe gridare: SuPiccinini! D'uomini come te v'èancor penuria nel mondo. Risorgi e insegna!
Un po' della tempra del Piccinini erano quei bergamaschi tuttianche i piùpopolani; anime esaltate dal patriottismo e un po' mistiche. Nel 1863quando laPolonia fece la sua terza rivoluzioneuno stormo di quei militi tornatidall'ottava compagnia dei Millevolò laggiù con Francesco Nullo. E il 5maggioterzo anniversario della partenza da Quartoentrarono nella Poloniarussa a Olkuszdove s'imbatterono subito nei Cacciatori finlandesi del generaleSzakowskoycoi quali impegnarono un combattimento. Il Nullo cadde ai primicolpie morì magnifico fin nella caduta; essi combatterono fin che furonotutti morti o feriti o ridotti a non poter più. Elia Marchetti si trascinòferito a morte fin nel territorio austriaco; dove un austriaco capitanoammirandolo se lo raccolse in casa e ve lo tenne con religione a morire. Quelliche sopravvissero furono mandati in Siberia. Nelle miniere di Jskutz logoraronola vita sette anniinvidiando i mortie parecchi vi morirono. Quelli che eranoscampati alla strage e alla catturacamminando come belvevalicando montagnepassando fiumivennero dietro il sole a cercar la patria. E per le terredell'Austria vi giunsero. Ma non si erano ancora riposati di tanta viachescoppiò la guerra del 1866. Allora tutti tornarono in campoe Giuseppe Dilanidetto Farfarelloumile operaioandava a farsi uccidere dagli Austriacinelleterre trentine nostre a Monte Suellovecchio nei patimenti a ventisette anni.
E Luigi Perlacon quel suo visetto arguto? Oh! Egli andò nel 1870 a morire aDigione per la repubblicaalla testa di un battaglione che gli fu affidato. LaFrancia riconoscente lo fregiòmortodella Legion d'onore; ma già egli eracompensato nell'aver potuto morire per quel nome di repubblicache alla suamente semplice pareva realtà di tutte le belle cose sognate.
Quei bergamaschi fecero scuola. Cosìcome alcuni in Polonia e come il Perla inFranciaultimo alunno di quell'antica compagniafiglio d'uno di queibergamaschiEttore Panzeri ufficiale degli Alpini nell'esercito della nuovaItaliaandava a morir giovinetto per la Grecia a Domokos nel 1897bellafavilla dell'antico fuoco garibaldinoche ridiede dopo tanti anni quellatardiva vampata.

I Carabinierigenovesialto

Ora ecco i Carabinieri genovesiquasi tutti di Genovao in Genova vissuti alungomazziniani ardentiarmati di carabine loro proprieesercitati nel tiroa segno da otto o nove anni i piùgente che s'era già fatta ammirare nel1859ben provvedutacoltaelegante.
Li comandava Antonio Mostotutto di Mazziniuomo non molto sopra i trent'annima che ne mostrava di più: barba pienalungasguardo acutoficcato lontanocome per guardare se al mondo esistesse il bene quale ei lo sentiva in sé.Quanto al coraggioera per lui cosa tanto naturaleche non poteva credere vifosse altri che non ne avesse. In tutta la campagna i borbonici non ebbero perlui una pallama il cuore glielo straziarono uccidendogli il fratello Carloche piantato lo studio all'Università di Pisaaveva ripreso la carabina. E lafortuna gli serbava di tornare illeso anche dalla guerra del 1866. Ma l'annoappressoa Mentanauna palla francese lo colpì di tale feritache lo reseinvalido fin che nel 1880 morì.
Suo luogotenente era Bartolomeo Saviun fierissimo repubblicanotutto nudritodi studi classicie già ben sopra la quarantina; uomo austero e crucciosocheguardava sempre con un certo piglio di rimprovero Garibaldiperché s'eralasciato tirare dalla parte del Re. Ma lo seguiva perché gli pareva di non averdiritto di negar il suo braccio alla patriasoltanto pel motivo che la patriasi andava rifacendo nel nome di un re. E lo seguì poi fino al giorno chedopoAspromontetutto gli parve falsatoepoco appressotediato della vita siuccise.
Inquadravano la compagnia CanzioBurlandoUzielSartorioBellenodei qualii tre ultimi non tornarono più; e tra tuttiquei trentasette carabinieridovevano pagare un gran tributo fin dal primo scontro di Calatafimidove cinquemorironodieci furono feriti. Ma la vittoria fu dovuta in gran parte alle loroinfallibili carabine.

Le Guidealto

Mancavano i cavalliné c'era tempo di far una corsa nella vicina Maremma apigliarne un branco al laccioma le Guide furono ordinate lo stesso. Eranoventitré. Le comandava il Missoril'elegantissimo milanesepassato dal cultodelle eleganze a quello delle armie come da prode lo seppero tutti. Basti chein quella guerra l'Italia dovette a lui e a pochi altri se a Milazzo Garibaldinon fu sopraffatto e ucciso da un branco di cavalieri napoletaniche essi arivoltella sgominaronomentre il Generale che si trovava a piedi potéuccidendololiberarsi dal capitano di quelli ruinatogli addosso furiosomenando fendenti.
Sergente delle Guide era Francesco Nulloil più bell'uomo della spedizione.Aveva trentaquattro anniera mercante come Francesco Ferrucci. Allora gli entròla passione di cavalier di ventura dell'umanitàe non ebbe più requie finchénon gliela diede tre anni di poinel cimitero di Miekovil generale russo cheve lo seppellì con onori militari da generale pari suo. Sapeva quel russo didover andare punito nel Caucasoma nonostantea quella nobile figura di mortovolle mostrare il suo nobile cuore di uomo.
Compagni più che sottoposti al Missori e al Nulloerano certi degni uominicome Giovan Maria Damiani da Piacenzache a sedici anni aveva combattuto aNovaradove gli era morto un fratello; e Giuseppe Nuvolari da Roncoferraro nelMantovano ricchissimo di possessioni e già sui quaranta; due puritaninienteallegriprovati nell'esiliopensierosi semprequasi scontrosi.
Semplice guida era Emilio Zasio da Pralboinodi ventinove anniche uscito dimodesta casa pareva figlio di principitanto ambiva le cose signorili;fantasticoimpetuosotemerario e nell'amare e nel volere sempre grandioso.Luigi Martignolida Lodi come Fanfullache a trentatré anni doveva morire aCalatafimisomigliava un po' al Zasio nel portamento non nella bellezza; mabello ancor più di Zasio era il conte Filippo Manci da Poro nel Trentinogiovinetto di ventun anni. Tutti e due furono infelici. Sopravvissuti a quelleguerre e alle altre venute dopodovevano finire quasi insieme nel 1869colraggio della mente già spento per dolori così crudelispecie quelli del Manciche chi li conobbe ingiuriò la morte perché non se li aveva presi quando leandavano incontro sani d'anima e lieti.
E poi tra quelle Guide erano scritti l'avvocato Filippo Tranquillini e EgistoBezzi trentini anch'essi come il Manci; Domenico Cariolato da Vicenzache diventiquattro anni era già un veterano della difesa di Roma; il medico CamilloChizzolini da Marcaria e l'ingegnere Luigi Daccò da Marcignano giovanissimituttiche parevano figli del sessagenario Alessandro Fasola novaresegiàcarbonaro nel 1821 col Santarosaprofugopoi soldato di tutte le guerre sino aquella del 1859e che ora correva a quell'impresa romanzesca con la baldanzad'un giovanetto che fa la sua prima volata fuori casa.

L'Intendenzaalto

Poiché la spedizione doveva avere una Intendenzaquesta fu formata sulseriobenché in veritàla cassa di guerra non contenesse che trentamilapovere lire. E vi fu messo a capo Giovanni Acerbiavanzo dei martirii diMantovail quale andava rivendicando nelle cospirazioni e nelle guerre l'onordel nomemacchiato da uno del casato che aveva venduto l'ingegno e le lettereall'Austriaprima ch'egli nascesse. Aveva compagni Ippolito NievoPaolo BoviFrancesco De Maestri e Carlo Roditre veterani questi ultimimutilati ciascunod'un braccioche parevano intervenuti per dire ai giovani: "Vedete checosa ci si guadagna? Eppure non fa male!" In quanto al Nievo andava traquella genteper dir cosìcome Orfeo tra gli Argonauti. Chi lo guardavaindovinava che era già grandeo che era destinato a divenirlo. Egli era notoper due suoi romanzi sentimentali: 'Angelo di bontà' e 'Il conte pecoraio'; eanche si sapeva da qualche amico suo che ei stava lavorando alle suemaravigliose 'Confessioni d'un Ottuagenario'e che le lasciava imperfette peraccorrere alla grande impresa. Diceva egli stesso che gli sarebbe tantorincresciuto morire senza averle finite! Nel 1859 aveva cantati gli 'Amorigaribaldini'liriche scintillanti come spadescritte sull'arcione cavalcandoalla guerra di Lombardiae stampate sul punto di partire per la Sicilia. E'Partendo per la Sicilia'fu appunto il titolo che egli dava all'ultimanonuscita dal suo petto ma rappresentata nella pagina da una fila di interrogativi.Forse egli presentiva che non sarebbe più ritornato? Difatti spariva dal mondonel marzo del 1861in una notte di tempesta nel Tirrenocon un vapore che fuingoiatopasseggeri e tuttodalle acque. Perì in lui il poeta che avrebbecantato davvero l'Epopea garibaldina; e un cadavere che fu creduto luivennepoi trovato sulla riva d'Ischial'isola dei poeti.

Il corposanitarioalto

Più necessario allora che non l'Intendenzafu ordinato anche il Corposanitariosotto il vecchio dottor Pietro Ripari da Solarolo Rainieroche de'suoi cinquantott'anni ne aveva passati molti nelle carceri dell'Austria e delPapa. Ma per tormenti che vi avesse duratinon si era mai stancato di adorarela propria ideae tant'era che per essacon l'età che avevalì si mettevaal caso d'andare a sperimentare anche le galere del Borbone e a finir la vitatra i ferri. Aveva con sé Cesare Boldrinimantovanouomo di quarantaquattroannie Francesco Ziliani del brescianodi ventottovalenti medici e bravisoldati. Il Boldrininel seguito della guerravolle poi essere soltantoufficiale combattente. E il 1° ottobre cadde a Maddalonicomandante di unbattaglione rimasto celebre col suo nome; consolazione grande questa al prodenei dolori che durarono due mesi a consumarlo e a farlo morire. Il Zilianibellissimorobustissimo e giocondoper qualche cosa che aveva nel far suometteva la soggezionee temperava solo con la sua presenza anche i piùspensierati e chiassosi. Dove egli capitavafossero pur allegri i discorsitutti diventavano seriile lingue si facevano castedi cose frivole nessunosapeva più dirne. Crebbe su agli alti gradima non se ne volle giovare: tornòmodestamente alle case patriarcali da dove non uscì che per le altre guerre; visi chiuse alla fine a farsi crescere intorno una famiglia secondo il suo cuoree in mezzo ad essa invecchiòricordando ed amando i campi e le plebi.
Altri medici in quel piccolo corpo erano Oddo-Tedeschi d'Alimena e Gaetano Zendi Adria; e del resto se ne trovavano sparsi in tutte le compagniecombattentidei migliori e da combattenti infermieri. A Calatafimi ne furono visti tra unassalto e l'altro deporre il fuciletirar fuori ferri e bendecurare qualcheferito; ripigliar su l'armae andar a farsi ferire.

*

La storia dovrebbe aver già detto e dirà che quella spedizione fu più cheper metà composta d'uomini di studio e d'intelletto. Ne contava più d'uncentinaio e mezzo che erano già o divennero poi avvocati; e così come questiun centinaio di mediciun mezzo centinaio di ingegneriuna ventina difarmacistitrenta capitani marittimidieci pittori o scultoriparecchiscrittori o professori di lettere e di scienzetre sacerdotialcuniseminaristi. V'era anche una donnaRosalia Montmasson savoiardamoglie diCrispiche volle seguir il marito in quel pericolo; poi centinaia dicommercianti e centinaia di arteficioperai il restocontadini quasi nessuno.
Non sarà inutile aggiungere che trecentocinquanta di quegli uomini eranolombardicentosessanta genovesiil resto venetitrentiniistriani e dellealtre provincie dell'Italia superiore e centralecon forse un centinaio disiciliani e napolitani tornanti dall'esilio. Non ve n'erano affatto delleprovincie di AquilaBeneventoCaltanissettaCampobassoChietiCasertaForlìPesaroRavenna e Siracusa. Stranieri accorsi per amor d'Italia ve n'eranodiciottouno dei quali africanol'altro d'Americae questi era Menottiilfiglio del Generale.
Di quel centinaio di meridionali trentacinque appartenevano alla partepeninsulare del Regno; gente degna davvero tutti. Ma sette di essi eranovenerandi per chi sapeva la storia dei loro dolori. Avevano portato per diecianni la catena negli ergastoli di Procidadi Montefusco o di Montesarchio;condannati a trentaa venticinquea vent'anni di ferri per amore di libertà.Ma il 9 gennaio del 1859proprio la vigilia del giorno in cui Vittorio Emanueledicevalassùlontanonel Parlamento piemontesela sua storica frase delle'grida di dolore'; avevano ricevuto laggiù col gran Poeriocol Settembrinicon Silvio Spaventala beffarda grazia di andar banditideportati in America.Re Ferdinandosentendosi divenuto odioso a tutta Europache lo chiamava da unpezzo negazione di Dioaveva voluto dare quel segno della sua clemenzaasessantasei delle sue vittime. Di queste si sa il viaggio a Cadicelaliberazione avvenuta a bordo nell'Atlantico per opera del figlio di Settembrinila discesa a Cork in Irlanda e il rifugio in Piemonte. Ora di quei sessantaseisette erano lì che se n'andavano tra i Millecome sette vendette. Bisognavaesser nati con cuori veramente eroici per mettersi dopo tanto patire a quelpassoo aver lo spasimo di riveder lui il Re crudele; e poiché egli era giàmortoincontrarsi almeno con qualche suo rappresentante per afferrarlo al pettoe farlo domandar pietà. Questo diciamo noiforse perché in generale siamoancora tanto deboliche ci compiacciamo di pensar da violenti; ma que' setteerano forti e miti. Allora non erano più nel fior degli anni. Achille Argentinoingegnere di Sant'Angelo dei Lombardi ne aveva trentanove; Cesare Braicomedicodi Brindisitrentasette; Domenico Damisgentiluomo di Lungrotrentasei;Stanislao Lamnesalegale di Saracenaquarantotto; Raffaele Maurogentiluomodi Cosenzaquarantasei; Rocco Morgantefarmacista da Fiumaracinquantacinque;Raffaele Piccoli di Castagna diaconoquarantotto. E Mauro aveva a casa cinquefigliuoliLamensa quattro. Non li avevano più veduti dal 1849anno della lorocondanna; ora andavano a ritrovarli per quella via. Parlavano pocoma sedicevano gli orrori delle galere nelle quali erano statia quelli cheascoltavano avveniva di augurarsi che essi vi fossero ancora chiusid'averdieci vited'andar a darle tutte per liberare da tante miserie dei cristianicome loro. Al paragone quelle dello Spielberg dovevano esser state sopportabiliumane. Ma ce n'erano ancora tanti altri negli ergastoli del Regno! Tutto ilRegno era un carceredunque era bello andare a sfondarlo.

L'Artiglieriae il Genioalto

Perché fu allora cosa inaspettatasi narra qui un po' fuor di posto che inTalamone fu pur formata l'Artiglieria. Fin dalla prima ora della sua discesa aterraGaribaldi aveva visto nel vecchio castello una colubrinalunga come lafamemontata su di un cattivo affustoa ruote di legno non cerchiatee pellogoro di chi sa quanti anni divenute poligonali. Portava in rilievo sullaculatta l'anno del suo getto1600e il nome del fonditore Cosimo Cennicertoun toscano. Una delle maniglie in forma di delfino le era stata rottama duesegni di cannonate ricevute le facevano onore. Forse non aveva mai più tuonatodal 9 maggio 1646quando novemila francesi condotti da Tommaso di Savoia eranogiunti in quel golfo su d'una flotta di galee e tartane. Adesso là nel castellonon faceva più nullae Garibaldi se la prese.
Il giorno appressovennero da Orbetello tre altri cannoniuno dei quali nonguari migliore della colubrinama due erano di bronzo bellissimiallafrancesefusi nel 1802. Sulla fascia della culatta d'uno si leggeva"L'Ardito" su quella dell'altro "Il Giocoso". I nomipiacquero; convenivano agli umori di quella gente. Quei cannoni non avevanoaffustoma laggiù in Sicilia qualcuno avrebbe saputo incavarselie per questoc'erano tra i Mille i palermitani Giuseppe Orlando e Achille Campomacchinistivalentii quali difatti fecero poi tutto alla meglio sei giorni appresso.
Ma chi aveva dato quei cannoni?
Garibaldi aveva mandato il colonnello Turral comandante della fortezza diOrbetello con questo scritto:

"Credete a tutto quanto vi dirà il mio aiutante di campocolonnelloTurre aiutateci con tutti i mezzi vostriper la spedizione che intraprendoper la gloria del nostro Re Vittorio Emanuele e per la grandezza dellapatria."

Il comandanteche era un tenente-colonnello Giorginiquando lesse quelfoglio si dovette sentire un grande schianto al cuore. L'aiutante di campo diGaribaldi gli chiedeva delle munizioni! Impossibile.
Ella è militare- disse al Turr - e sa che cosa significhi consegnare le armie le munizioni di una fortezzasenza ordine dei capi.
Ma se gli ordini li riceveste dal Re? - rispose il Turr - basterà che gliinviate questa mia lettera.
E lì per lìsotto gli occhi del Comandantescrisse al conte Trecchinotissimo aiutante di campo di Vittorio Emanuele:

"Caro Trecchi

Dite a Sua Maestà che le munizioni destinate per la nostra spedizione sonorimaste a Genova; ora preghiamo Sua Maestà di voler dar ordine al Comandantedella fortezza di Orbetello di provvederci con quanto più può del suoarsenale.

Colonnello Turr."

Porgendo la lettera al Comandanteil Turr gli disse che siccome la rispostanon verrebbe se non forse in una settimanasu di lui Comandante peserebberotutte le incalcolabili conseguenze di quel ritardo; lo informò dellaspedizione; lo accertò dell'intesa tra il Re e Garibaldi; insomma seppe fartanto che quell'ufficialesolo facendosi promettere che l'impresa non sarebbevolta contro gli Stati del Papadiede tutte le cartucce che aveva pronteecasse di polvere e quei tre cannoni e quant'altre cose poté. E tutto fucaricato e condotto a Talamonedov'egli stesso volle recarsi per vederGaribaldi e la spedizione. Vollero accompagnarlo due suoi ufficialie insiemeil maggior Pinelli che comandava un battaglione di bersaglieridiviso traOrbetello e Santo Stefano. Temeva questi che quei soldati gli scappassero mezziper imbarcarsi con Garibaldie voleva pregarlo di non riceverli a bordo. IlGenerale accolse tutti con grato animoma non senza pensare che al Giorginidovevano seguire de' guai. E gliene seguironoperché il povero Comandante fupoi tenuto a lungo nella fortezza di Alessandria sottoposto a Consiglio diguerra; ma alcuni mesi doponel tripudio della patriafu mandato sciolto dipena.

Ora dunque la spedizione possedeva anche delle artiglieriee bisognavaformare il corpo dei Cannonieri. A ordinarli e comandarli venne messo ilcolonnello Vincenzo Orsiniche per questo dovette lasciare la 2° Compagnia cuisi era appena presentato. Egli chiamò a sé quanti avessero già militatonell'artiglieriae ne trovò una ventina. Ai quali ne aggiunse dieci altriinesperti nell'armama studenti quasi tutti di matematica nell'Università diPavia. E fu di questo numero Oreste Baratierigiovinetto sui diciannovepigliato appunto allora dalla fortuna che non lo abbandonò più per trentaseiannie doveva elevarlo tanto da farlo brillar come un astro e spegnerlo poi inun giornocome nullanel buio. Egli aveva allora compagni in quell'artiglieriastranagiovani come luiLuigi Premi da CasalnovoArturo Termanini da Casoratesaliti poi anche essi nell'esercito nazionale e assai altima senza clamori. Viaveva Domenico Sampieri di Adriauomo di trentadue anniavanzo della difesa diVenezia e degli esigli di Smirne e d'Epiroe divenuto anch'egli Generaledell'esercito nazionale. Rimasto oscuro e modestovi si trovava insieme ad essiGiuseppe Nodarida Castiglione delle Stiviereanima d'artistache dappertuttolaggiù avea sempre la matita in mano a schizzare dal vero bivacchifattid'arme e figure caratteristichedelle quali s'ornò poi la casa dove morìmedicotrentott'anni di poi. E giovane misticonato per ogni sacrificiovistava bene col Nodari l'ingegnere Antonio Pievani da Tiranoche già deliberatoa farsi fratesolo quando fu finita l'opera di rifar la patriaentrò neiFrancescaniper andar missionario nel mondo barbaro. E invecetradito dallasalutemorì nel 1880in una cella del convento di Loveresul lago d'Iseosulle cui rive deliziose eran nati quattro compagni suoi nei MilleZeboArcangeliGian Maria ArchettiCarlo Bonardi e Giuseppe Volpiquesti ultimidue a lui carissimi e morti in guerra.

Poiché ormai quel piccolo esercito aveva tutte le sue membra fuorché ilGeniofu ordinato anche questo: una dozzina e mezza di operaidi macchinistid'ingegnericon Filippo Minutilli da Grumo d'Appula per Comandanteuomo diquarantasette anniseverodi poche parolecui si leggeva in visoe certo loaveva dentroqualche profondo dolore. Pativa l'esilio dal 1849; era stato inOrientein Maltain Piemonte; lasciava in Genova coi figliuoli la moglieeroica donna messineseche si era sentita il cuore di cucire per lui la camiciarossae di scendere alle porte di Genovaa dirgli addiomentre egli passavaper andar a Quarto ad imbarcarsi.
Luogotenente del Minutilli fu l'ingegnere Achille Argentinouno dei liberatil'anno avanti dalle galere di Re Ferdinandodei quali si è detto.
Formati così anche i piccoli corpi dell'Artiglieria e del Geniogli uomini chevi appartenevano andarono a piantar sul Piemonte un piccolo laboratorio. Esubitoe i giorni dipoipur non avendo strumentifabbricarono scatole dimitraglia con ogni sorta di rottami e di lamiere di ferro rinvenute nelle stivedei due vapori. Con le lenzuola di bordo fecero sacchetti per le cariche dacannonee fabbricarono cartucce da fucilemetà delle quali passarono sulLombardo.

La diversionealto

Tutto cominciava ad andare per bene: solo sembrava strano che la spedizionecontinuasse a stare a perdere un tempo prezioso.
Ma nel pomeriggio dell'8 corse vagamente la voce che Garibaldi avesse deliberatodi gettarsi nel Pontificioper marciare senz'altro su Roma. Una sessantina diuominipresi qua e là nelle campagne e raccolti in drappelloerano partitisin dalla sera avantiper la strada chegirando il golfomena da Talamone inMaremma. Marciava alla loro testa un Zambanchi. Era un forlivese già sullacinquantinaquadratobarbutodi poca testaassai rozzo e millantatore. Eaveva fama d'esser uomo di sangueperché nel '49a Romaera stato crudocontro tre pretii qualivolendo entrare nelle città travestiti da contadiniavevano dato del capo nei suoi avamposti. Egli li aveva tenuti prigionieri; poisenza averne ordine dal Governogli aveva fatti fucilare. Per tal suo fatto glipesava addosso l'accusa di sterminatore di preti e fratie sin d'averne colmatoun pozzo.
A chi non sapeva tuttopareva che quella compagnia fosse l'avanguardiae chela spedizione dovesse tenerle dietro. E i più giovani lo credevanoma glianziani no. Delle otto compagnieGaribaldi ne aveva affidate tre a comandantisicilianiuna ad un calabrese; ora come poteva darsi che egli volesse far loroil torto di non andare in Sicilia? Però il fatto che quel piccolo drappello sen'era andato per entrare nel Pontificio a farvisi distruggere forse ai primipassise tutta la spedizione non lo volesse seguirenon si capiva. Vi era chidiceva che Garibaldi avesse fatto cosìper levarsi dai piedi quel Zambianchiche gli era odioso: ma altri faceva osservare che forse si esagerava perché nona un uomo così fatto Garibaldi avrebbe dato da condurre quel manipoloin cuisi erano trovati a dover andare dei giovani come il Guerzoniil LeardiilLocatelliil Ferrariil Fumagalliil Pittalugae avvocatiscrittoriscultorie quattro medici come FochiBandini e Soncini da Parmae Cantoni daPaviae tanti altriproprio gente già di conto. Pensavano forse meglio quelliche dicevano che il Generale aveva mandato quel manipolo nel Pontificio affinchén'andasse la voce a Roma e a Napolia generar confusione in quei governi; e chequanto al Zambianchi qualcunoforse il Guerzoniavesse l'ordine di levargli ilcomandose mai venisse l'occasione di doversene liberare per qualche suosproposito o qualche violenza.
Verso sera le trombe suonaronole compagnie si ordinaronoscesero al portotornarono a imbarcarsi sui due vapori. Quella tornata a bordo levò via ognidubbio. E allora nacque negli animi una generosa pietà per i compagni partiti.Che brava gente! Avevano compìto il più duro sacrificio che si potesse ideare:perdevano la vista di Lui e l'epopea che s'erano sentita nel pensieroper andara crearne un episodio oscuronon sapevano dovepochibene armatima condottida un uomo disamato. Parlando d'essimolti confessavano che comandati a quelpasso non avrebbero ubbidito; ma i più lodavano l'ubbidienza di quei sessantacome indizio di gran virtùe testimonianza del più alto valore.

A Santo Stefanoalto

Garibaldi aveva fretta di partirema non aveva fatto imbarcare le compagnieper questo. Alcuni dei suoi uomini per cattiveria o per braveriaavevano datonoia a qualcuno di Talamoneond'eglisdegnatosi era risolto a levar tutti daterra. Così i due vapori stettero carichi all'ancora tutta la notte dall'8 al9; e solo all'alba salparono pel golfo a Santo Stefanobreve tratto. Lacittadetta si svegliava. Viste dal portole sue case parevano edificate l'una ainseguir l'altra su super arrivare in alto a trovar i giardinii vignetiglioliveti pensili tra le rocce.
Vi scesero BixioSchiaffino e Bandiper andare ai magazzini del governoe inqualche modo farsi dare carboneperché la traversata della Sicilia era ancoralungae poteva anche capitare di dover andare chi sa quanti giornifuggendo diqua e di là pel Mediterraneoperseguitati dalle navi napoletane. Il Bandis'accostò al custode dei magazzini e cominciò colle buone a tentarlo. Ormaisapevano tutti colà che Orbetello aveva dato armie in quei giorni quelcustode poteva fare uno strappo anch'egli ai regolamenti. Ma colui nicchiavaeil Bandi non riusciva a convincerlo. Allora gli cadde là Bixioche preso alpetto il custode fedelelo scosse un pocoemiracoli di quell'uomoilcarbone andò a bordo per dir così da sé. E andarono a bordo e viveri e barilid'acqua. V'andarono anche per imbarcarsi stormi di bersaglierima Garibaldiaveva promesso all maggior Pinelli di respingerlie non li volle. Tre soli chepoterono salire a nascondersi sul Lombardoseguirono la spedizionee divenneropoi ufficiali dei migliori nella bella compagnia.

Le armialto

Durante la sosta a Santo Stefano furono distribuite le armi alle compagnie;solenne momento! Faceva pensare a un altro ancor più solennequello di quandovicina l'ora della battagliai reggimenti d'allora caricavano i fucili conquell'indescrivibile ronzio di bacchette tutte piantate a un tempo nelle canneche dava il raccapriccio e il cupo sentimento della morte. Quelle armi eranovecchi fucili di avanti il '48trasformati da pietra focaia a percussionelunghipesantirugginositetri. Stava legata a ciascun fucile una baionettanel fodero cucito a un cinturone di cuoio nerocon certa piastra da fermarseloalla vita e certa cartucciera proprio da far malinconia a provarsela. Oggi nonse ne vorrebbe servireper così direneppure un bandito. Eppure nessuno se nelagnò. Insieme con quell'armaognuno ricevette venti cartuccee se le mise aposto con gran cura. Quelle povere cose erano tutte le risorse di cui Garibaldipoteva disporre. Povero Garibaldi! Nell'ultimo momento che stette in quelleacqueun suo compagno d'altri tempi che lo aveva seguito nei mari della Cina eche poi aveva perduto una gamba combattendo pei liberali del Perùbel soldatovivacissimo ingegnovoleva seguirlo così mutilato com'era anche a quella suabella guerra. Egli dovette supplicarlo di andarsenee infine comandarglielo.Furono lagrime! Ma Stefano Siccoli dovè ubbidirediscendereveder da terrasalpare l'ancorastringersi il cuore perché non gli scoppiasse. Però aveva giàil suo proposito bell'e formato: egli avrebbe raggiunto Zambianchi.

Di nuovo in marealto

Era quasi il tocco dopo mezzodìquando il Piemonte e il Lombardo si mosseroverso l'isola del Giglio. Finalmente!
Garibaldi era stato tutti quei due giorni in angustia. Certo egli ignorava ciòche si seppe poie cioè che il Ricasoligovernatore della Toscanaavevatelegrafato al prefetto di Grosseto di "tenersi estraneo a quantosuccedeva" nel golfo di Talamone. Ma lo avesse anche saputotemeva delFarinitemeva del Cavourné avrebbe potuto giustamente lagnarsi di lorosegli avessero fatto giungere addosso la squadra di Persano a pigliarselo. Ilmomento era ben più cruccioso che quello di Genova. Nei tre giorni della suapartenzatutta l'Europa avea avuto tempo di mettere il Governo di Torino allastretta o di catturare lui o di prepararsi alla guerra. E allora che rovina! Legenti del mezzodì deluse e cadute nell'accasciamento; egli e il suo partitoumiliati; Vittorio Emanuele costretto a rinnegare il pensiero unitario! Cisarebbero voluti molti anni a rimetter su gli animi; e intantoprima chetornasse un'occasionesarebbero divenuti vecchisarebbero forse morti il ReCavourMazziniluitutta quella generazione; e non si sapeva che cosa sarebbepoi avvenuto.
Ora dunque egli e tutti sulle due navi respiravano contenti. Girata la puntadell'Argentaroecco a destra l'isola del Giglio con la sua costa erta erocciosa e col suo borgo su in cima. Una freschezzauna pace! Quanti di queinaviganti già vecchi e stanchi avranno pensato di venirvi un dì a trovarsi unposticino lassùper invecchiarvi del tutto e morirvipensando alla loroodissea! Ma ora l'odissea non era finitaanzi andavano a crearne forse l'ultimocanto.
Più in là del GiglioMontecristol'isola dei sogni; e lungo la costaoccidentale dell'Argentaro a guardare in su torritorri e torri. Che stranoarnese da guerra doveva essere stato quel monte! E poi a sinistra Giannutriluogo da capre selvatiche e da conigli.
Di là da quelle isolette i due vapori pigliarono il largo; dunque alle costeromane non c'era proprio più da pensarcie presto sarebbero entrati nelleacque napolitane.
Veniva ai Mille la sera e la malinconia. Cosa si pensava di loro nelle loro cittànei loro villagginelle loro case? Davvero tutta l'Italia doveva stare ingrande ansietà. Ormai la spedizione era via da quattro giorni; ogni istantepoteva esser quello di una grande tragediain qualche punto del Tirreno. Se idue vapori si fossero imbattuti nella crociera napolitanaavrebbero dovutoarrendersi o avventarsi cannoneggiati contro le navi borbonichelanciarsiall'arrembaggio da disperatie farsi saltar in aria con esse o pigliarsele. Chisapeva mai! Con Garibaldi e con Bixio alla testatutto era possibile. Ma seinvece fossero stati catturati e menati nel porto di Napolidove quel Repotesse veder Garibaldi e i suoi làsotto le finestre della reggiaprima difarli morire forse tuttio empirne le sue galere? Chi amavapensava così etemeva e sperava; e forse non sarà mancato chi anche peggio della cattura avràaugurato una tempesta di cannonate sui due vapori e il fondo del mare a chi viera super tomba.
Ma i due vapori andavano ancora sicuri. E andarono tutta la notte e tutto ilgiorno dipoiche era il 10senza veder che cielo ed acqua come se fosseronell'Oceano. A bordoi pavesi cantavano. Tutto era quieto. Solo a una cert'oraprima del mezzodìci fu un po' di trambustoperché uno del Lombardo si eragettato in marepel dolore di non essere riuscito a farsi inscrivere neiCarabinieri genovesi. Fu subito fermato il vapore; una lancia vogò come saettagiunse dove quell'uomo si dibatteva tra le ondee uno della lancia si chinòlo tirò su mezzo morto ma come fosse un gingillo. Quel forte dalle braccia cosìgagliarde doveva essereera certo il figlio di Garibaldi. A bordo si diceva cosìperché così le moltitudini fanno la loro poesiae infatti quel forte eraproprio Menotti.
Doposul meriggioil Piemonte cominciò a filar via più spedito e il Lombardoa rimanere indietro. La distanza s'allungava ora per ora... Dove voleva andareil Generale così solo? Forse aveva pensato di dividere in due la spedizioneper non correre tutti la stessa sortese mai fosse stata avversa? Chi losapeva! DivisiPiemonte e Lombardol'uno o l'altro sarebbero riusciti adapprodaree riuscendo tutt'e dueuna volta sbarcatifacile sarebbe statoriunirsi nell'isola.
Era un nuovo dolore per quei del Lombardopoiché se Bixio era Bixioben piùfortunati erano coloro che si trovavano a correr le sorti del Generaleora chela prova era così vicina. Finire con lui come che fosseognuno se lo potevaaugurare.
In un certo momentomentre gli animi erano agitati cosìBixio chiamò tutti apoppa. Era furioso: Aveva scaraventato un piatto in viso a uno che s'eralamentato dei superiorie aveva perduto a lui il rispetto. - Tutti a poppa! -
E Bixio di lassùdal ponte del comandofremente come un'aquila libratasull'aligià per piombare sulla predaparlò:
"Io sono giovaneho trentasette anni ed ho fatto il giro del mondo. Sonostato naufragoprigionieroma son qui e qui comando io. Qui io sono tuttoloCzaril Sultanoil Papasono Nino Bixio. Dovete ubbidirmi tutti: guai chiosasse un'alzata di spalleguai chi pensasse d'ammutinarsi. Uscirei col miouniformecolla mia sciabolacon le mie decorazionie vi ucciderei tutti. IlGenerale mi ha lasciatocomandandomi di sbarcarvi in Sicilia. Vi sbarcherò. Làmi impiccherete al primo albero che troveremoma in Siciliave lo giurovisbarcheremo."
Veramente esageravaperché l'atto di colui che lo aveva offeso era affattoindividualee non meritava quel suo fiero discorso. Però quand'egli ebbefinito e voltò le spalleforse per non farsi vedere commossotutte le bracciaerano alzate a luitra grida di lode. Ma da quel suo discorso parve a tutti diaver indovinato che il disegno di Garibaldi era proprio di tentar lo sbarcoegli e Bixioognuno da sé. Difatti il Piemonte era già quasi fuori della lorvistasicché prima che fosse notte fattanon ne scorgevano neppur più ilfumo. E passò sul Lombardo un soffio di gran malinconia. Erano congetture. Dicerto vi era che cominciava la notte dei pericoli veri. Ormai la marinerianapoletana doveva sapere da un pezzo che la spedizione era in maree che si eraforse già tesa tutta davanti all'isola ad aspettarla. Garibaldi andava adesplorare.
Egliprudentissimo e in guerra sempre geloso del proprio segretosoltanto doposalpato da Santo Stefanopoiché allora nessuno avrebbe più potuto propalarnullaaveva detto al suo aiutante Turr di chiamargli CrispiCastiglia e Orsinisicilianiper determinare il punto di sbarco. E in quella conferenzaabbandonato il suo primo pensiero di scendere a Castellamare del Golfoavevadeliberato di tentarlo a Porto Palosulla costa tra Sciacca e Mazzaradove èfama che il 16 giugno dell'827 siano sbarcati i primi Saraceni che invaserol'isolachiamati e guidati da Eufemio di Messina. Ma certamente questo fatto dimille anni avanti non entrò per nulla nella scelta di Garibaldi: perché néegliné quegli uomini che stavano con luise anche lo sapevanoerano testeda fissarvisi su. Comunque siaper andare a Porto Paloi due vapori dovevanofare falsa rotta verso la Berberiae poise le acque parevano liberevoltardi colpo verso Sicilia a trovarlo.
Ma assai dopo il mezzo di quella notte dal 10 all'11Garibaldi giunto pressol'isoletta di Maretimoche nel gruppo delle Egadi è la più lontana dallacosta di Siciliadeliberò di fermarsi celato dall'isoletta e a lumi spentiper aspettare il Lombardo. Da ponente e da tramontana vedeva i fanali delle navinapolitane in crocierae in quei momenti doveva parergli d'esser ne' suoi tempiquasi favolosi di Rio Grande d'America. Stato un pezzo in quel silenzio come inagguatoinquieto pel Lombardo che non apparivatornò indietro per cercarlo. Ecoloro che stavano sul Lombardo e che a quell'ora vegliavanoquando rividero ilPiemonte lo credettero una nave nemica che corresse loro incontro a investirli.Lo credette lo stesso Bixio. Piantato sul suo ponteegli fece levar su tutti einastar le baionette; comandò al macchinista di dar tutto il vaporee altimoniere di voltar tutto a sinistraper andare alla disperata addosso a quellegno. A prora Simone Schiaffinocapitan Carlo Burattini d'AnconaJacopoSgaralino di Livornocon dietro una follastavano pronti per lanciarsiall'arrembaggiotutto il ponte del Lombardo fremevae mancava poco algrand'urto. Ma allora sonò la voce di Garibaldi:
- Capitan Bixio!
- Generale! - urlò Bixio. - Indietro! Macchina indietro! Generalenon vedevo ifanali.
- E non vedete che siamo in mezzo alla crociera nemica? -
La commozione era stata così grandeil passaggio dallo sgomentodall'iradalla ferocia alla gioia così repentinoche la parola 'crociera' non fecequasi niun sensoe tutto fino a un certo segno tornò quieto. Intanto Garibaldie Bixio si concertaronopoi i due vapori ripresero la via l'un presso l'altroverso l'Africasempre però il Piemonte un po' avanti. Così andarono finoall'albae per le prime ore del mattinoin quell'acque tra la Sicilia e lecoste di Barberiama senza mai perder di vista il gruppo delle Egadi; LevanzolontanaMaretimo più in quaancor più in qua verso loro la Favignana. Abordo del Lombardo un Galigarsianativo di quell'isolettapovero milite chedoveva morire quattro giorni dipoi a Calatafimidiceva ad un gruppo di queisuoi compagni che in quell'isoletta così bella v'era un carcere profondissimosotto il livello del maredove stavano chiusi sette compagni di Pisacanesopravvissuti all'eccidio di Sapri. Condannati al patibolo e poi graziatimorivano ogni ora un po' in quella fossa maledetta.
Ma il sentimento del pericolo presentela maravigliosa vista delle cose incontrasto col disgustoso stato in cui tutti si trovavanopigiati da tanto temposu quel legnonon lasciavano quasi posto alla pietà per chi dolorava altrove.Del restol'ora era decisiva: o presto quei miseri sarebbero usciti liberioavrebbero avuto dei nuovi compagni.

La Sicilia!alto

Tutti intanto sui due legni stavano accovacciati per ordine severissimo deiComandantima tutti guatavano dall'orlo dei parapetti certi monti che dapprimaparevano nuvolaglia e che svolgevano via nell'aria vaporosa i loro profilisempre più netti. Quei monti per quei cuori eran già tutta la Sicilia che sianimavache esultavache cantava alla loro venuta. E poco appressoquandocominciò ad apparire una striscia bianca tra mare e terrasi diffuse la voceche là fosse Marsala.
Marsala! Tra quella e i due vapori erano libere le acque. Che fortuna! Parevache quella striscia bianca e tutta la terra movesse loro incontrotanto ladistanza si stringevatanto i due legni filavano agiliaiutati anche da un po'di ponente che appunto allora si era messo. Dunque ancora forse qualche breveorae i due vapori avrebbero atterrato. Tutto dipendeva da questoche non sistaccassero da Marsala navi da guerra a incontrarli a cannonate. Ma la speranzaera grande.
Sul ponte del Piemonte che andava sempre avantiquei del Lombardo vedevanoGaribaldi circondato da un gruppo dei suoicoi cannocchiali all'occhio.Guardavano due legni da guerra bianchiancorati nel porto. Ad un tratto ilPiemonte rallentòsi fermò quasipigliò su qualcuno da una barcapeschereccia che veniva da Marsala. E da colui Garibaldi seppe che quei duelegni erano inglesi; che dal porto di Marsalanella notten'erano partiti duenapolitani per Sciacca e Girgenti; che in quella mattina stessa delle milizievenute il dì avanti eran tornate via dalla cittàdirette a Trapani. Lafortunadunqueera proprio tutta dalla parte di Garibaldi! E il Piemontefilava e il Lombardo dietro con Bixioche non sapendo ciò che Garibaldisapevatempestava i suoi di star giùminacciava ira ai marinai se glisbagliassero manovra: Ma di sbarcare era anch'egli sicuro: anzi a un certomomento che passò vicino al suo un piccolo legno ingleseegli gridò:"Dite a Genova che il general Garibaldi è sbarcato a Marsala oggi 11maggioalle una pomeridiana!"
Quella sicurezza di Bixio passò in tutti i cuori. Perciò non fece quasi sensol'apparizione di due pennacchi nerilontaniin giù a destra; fumo di due navida guerra certoche dovevano venire a furia. Fulmini se mai giungessero intempo! Ma esse quel tanto spazio non potevano divorarselo; la terra era ormaivicinissima: si distingueva già il molo e fino la gente. Un altro po' di ansietàpoi...

Lo sbarcoalto

E poco appresso il Piemonte imboccava il portoe vi si andava a posare inmezzo come in luogo suo. Bixionella rapina dell'animo tempestosalanciò ilLombardo come un cavallo sfrenatoandasse pure ad investirea spaccarsimagari a sommergersitanto meglio! Cosìuna volta sbarcatiquelli che vistavan su avrebbero capito che non v'era più via di ritorno. E si fermò cosìfuori del molo destroa poche braccia da quella riva. Era il tocco dopo mezzodì.Nessuna poesia potrà mai dire l'anima di quella gente in quell'ora.
Ecco il momento degli uomini di mare. Benedetto Castigliacapo della marineriada guerra sicula nel 1848; capitano Andrea Rossi da Diano MarinacapitanGiuseppe Gastaldi da Porto MaurizioBurattiniAssiSgarallinoSchiaffino etutti quelli che com'essi erano marinaiscesero a raccoglier nel porto quantebarche vi si trovavano. E per amore o per forza le fecero lavorare.
Bisognava far presto a levar la gente e le poche cose da guerra e le artiglieriedai due vaporiperché in men di due ore quelle navi che si vedevano sempre piùvicine potevano giungere a tiro e fare una strage. Intorno al Lombardo e alPiemonte parve un finimondo.
Intanto Turr con MissoriPentasugliaArgentinoBruzzesiManinMiocchidiscesi primisalirono alla cittàsu cui cominciavano a sventolare bandiered'altre nazionima le più inglesi. E dalla città alcuni cittadini calavano alporto timidamente. Dei ragazzi li precedevano a corsa; sopraggiungevano fratibianchiche davano poderose strette di mano a quegli strani forestieri sbarcatiin armi e tutti vestiti alla borghesesalvo pochi in qualche divisa piemonteseo in camicia rossaforse una cinquantina. E quei frati facevano delle domandestraneda curiosi ma semplici; e udendo da uno dir che era di Veneziada unaltro di Genovadi Milanodi Romadi Bergamoinarcavano le cigliamaravigliati come se l'esser essi potuti giungere nella loro Sicilia da quellecittàfosse cosa quasi fuori del naturale.
In un'ora o in un'ora e mezzo al piùtutta la spedizione fu a terra. Qualcunosi ricordò che quel giorno era venerdìmalaugurio; qualcun altro disse cheera pur venerdì il giorno in cui Colombo partì da Palose che andassero alvento le superstizioni...! Ma a un tratto tuonò una prima cannonata. Le naviborboniche giungevano a tiro.
Erano tre: due a vapore più vicinela terza a vela tirata a rimorchio da unadi esse e lasciata poi indietro per far più alla lesta. Ma anche quella siavvicinava. E avrebbe potuto tirar qualche poco primama avevano indugiatoalquanto i lor fuochiperché i due legni inglesi Argus e Intrepid ancorati nelporto avevano pregato a segnali di bandiere di non tirarefinché i lorouffiiciali da terra non fossero tornati a bordo. Difatti dei marinai in calzonibianchi uscivano da Marsala e scendevano frettolosi al mare. E allora quellenavi cominciarono a sfogarsi contro gli sbarcatile due a vapore con tiri quasiin cadenzaquella a vela addirittura a fiancate.
Però i loro proiettili o davano in acquasguisciando poi a rotolar sulla rivagià mezzi mortio non oltrepassavano guari la linea del molo. Cadde qualchegranata in mezzo alle compagnie già ordinatema queste prontesi gettarono aterra e lasciarono scoppiare: una di quelle colpì e sfasciò mezzo un casottoda doganieri del molo; un'altra fece tremare la settima Compagniapassandoleparallela alla frontecosì che due braccia più a sinistra la mieteva tutta."Alte le teste!" gridò Cairoli; e la Compagnia stette salda.
Alfine fu dato il comando di salire alla città. Manin e Maiocchi regolavano lacorsa a gruppi. Un po' curviun po' carponiun po' rittiregolandosi allevampate dei cannoni nemicicorrevano quei gruppi su per il pendio verso laporta della città e vi entravano. Cara Marsala! E di qua e di là si spandevanoper le vie traverseperché in faccia a quella maestra era andata a porsi unadelle fregatee tentavacoi suoi tirid'infilare la porta. Poca gente perquelle vie; degli usci si chiudevano; dalle soglie d'altri usci e dalle finestredonne e uomini guardavano paurosi; e ve n'erano che applaudivanoi piùparevano gente trasognata.

Garibaldisbarcato degli ultimisaliva anch'egli ma lento alla cittàportando la sciabola sulla spalla come un contadino la zappa. E ogni poco sivolgeva a guardar il porto. Gusmaroli e altri pochi che lo seguivanoavrebberovoluto portarlo via di peso dal pericolo d'essere ucciso o soltanto ferito inquel primo istante. Senza di lui non si sapeva cosa sarebbe stato di quel gruppod'uominifossero pur molti i grandi e i forti tra loro. Egli da solo era unesercito. Ma nessuno osava dirgli che si guardassenessunoneppur Bixiovenuto via addirittura l'ultimo da bordo. Egli aveva voluto prima far portare aterra tutto ciò che gli era parso buono a qualcosapoi non avendo più nullada farviaperti egli stesso i rubinetti delle macchine affinché il Lombardos'empisse d'acquaera disceso.
Intanto le navi borboniche continuavano a tirare. E fu saputo subito che le duefregate a vapore si chiamavano Stromboli e Caprie che quella a velatantomaestosaera la Partenope. Ah! La Stromboli! V'erano tra gli sbarcati quei talisette che vi avevano navigato su nel 1859 fino a Cadicecon gli altri deportatiche dovevano andare a finire in America. Ora la riconoscevano ai profili. Nonerano più quei tempisebbene fossero ancora tanto vicini: né era più l'11luglio del 1849quandocomandata da un Salazarla Stromboli aveva inseguito itrabaccoli siciliani chefallito loro lo sbarco in Calabriaandavano arifugiarsi nelle Ionie. Lo Stromboli allora aveva issato bandiera ingleseperfidamente ingannando quei sicilianie li aveva catturati e condotti a lunghepene nelle carceri dei Borboni. Adesso era lì mortificata con quegli altri duelegnicui non restava che pigliarsi il Piemonte per menarlo via. Quanto alLombardo l'avrebbero dovuto lasciar là giacerecome un mostro marino sputatosulla spiaggia.
Testimoni di quei fatti stettero i due vapori inglesiammirando la discesa e laprontezza e l'ordine con cui tutto era avvenuto. E non sapevano che si sarebbesubito gridato e ripetuto poi lungamente pel mondo che essi avevano aiutatoGaribaldie che anzi per aiutarlo s'erano trovati là apposta. Furono vocifalse. L'Argus stava in quel porto da parecchi giorni per proteggere gli inglesiresidenti in MarsalaL'Intrepid v'era giunto di passaggio da poche oree pocheore dopo se n'andava per Malta.

Il proclamaalto

A guardia del portose mai dalle navi borboniche sbarcasse della genterimasero la 7° Compagnia e i Carabinieri genovesi. Con le loro infallibilicarabinequei genovesicheper dir cosìdavano in una capocchia di chiodo atrecento metriavrebbero presto levato ogni voglia di sbarcare a chi l'avessetentato. Da mare dunque Garibaldi non aveva da temere. Da terra sì. Per questomandò ricognizioni verso Trapani e verso Sciaccafece uscire dalla cittàquanto poté più delle Compagniefors'anche non si fidando dei vini del paesepei loro effetti sulle teste di quei suoi uominii quali in cinque giorni nonavevano mangiato che poco biscotto e bevuto acqua di botte quasi imputridita.Per esplorare il paese montò egli stesso sulla cupola della Cattedralecuipassarono subito ben vicine due granate delle navi che avevano visto gente lassù.Disceso andò al Municipioe di là disse alla Sicilia la sua prima parola:

"Siciliani!

Io vi ho condotto un piccolo pugno di valorosiaccorsi alle vostre eroichegridaavanzi delle battaglie lombarde. Noi siamo qui con voied altro noncerchiamo che di liberare il vostro paese. Se saremo tutti uniti sarà facileil nostro assunto. Dunqueall'armi!
Chi non prende un'arma qualunqueè un vile o un traditore. A nulla vale ilpretesto che manchino le armi. Noi avremo i fucilima per il momento ogniarma è buonaquando sia maneggiata dalle braccia di un valoroso. I Comuniavranno cura dei figlidelle donnedei vecchi che lascerete addietro! LaSicilia mostrerà ancora una volta al mondocome un paesecon l'efficacevolontà d'un intero popolosappia liberarsi dei suoi oppressori."

Di questo proclamaaffisso alle cantonate di Marsalafurono mandatiesemplari alle città vicinee lontano alle squadre che tenevano i monti.Bisognava che la gran voce andassee infiammasse la rivoluzione già quasivinta.
I Marsalesi leggevano e cominciavano a comprenderecoloro che cinque giorniavanti non avevano osato insorgere al grido di Abele Damianiloro concittadinoadesso pigliavano animoseguisse poi ciò che potesseperché con quegliitaliani c'erano pur CrispiLa MasaOrsiniPalizzoloCarinitutti dei loroproprio dell'isolae tutti già celebri fin dal '48. E poi avevano visto LuiGaribaldi in persona. Se la colonna del generale Letiziache il giorno avantiaveva fatto la sua comparsa minacciosae se n'era andata credendo di lasciarsidietro tutto tranquillofosse anche rinvenuta; avrebbero avuto da far conGaribaldicon quei suoi ufficiali facili a riconoscersi per uomini di guerrasul seriocon quella gente un po' d'ogni età ma pratica d'armi e disciplinatacon loro infine e con al loro città che si sarebbe difesa.
Anche il popolino pigliava via via confidenza con quei forestieri. Nelletavernenelle botteghe dove essi entravano per rifocillarsi e provvedersi diqualche cosuccia necessariala gente faceva subito folla. E si tratteneva asentirli parlare. Come erano buoni e cortesi! Le donne osservavano che moltiportavano i capelli lunghicosa strana per soldatie che avevano gli occhiazzurri e le mani e i panni indosso da veri signori. I bottegai ricevevano lemonete con su l'effigie di Vittorio Emanuelemirando e facendo mirare i granbaffi del Re di cui avevano sentito parlar vagamentedomandavano se Garibaldifosse suo fratello. Davano i resti in mucchi di monete luride e frusteefacevano tutto gli uni e gli altri con gran fidanza. Quelle non erano ore dainganni.
Correvano intanto dei racconti curiosi di particolari minuti dello sbarcounfatterello seguito qua o làa questo o a quell'altro di questadi quellaCompagnia. Facetonel serioma verosi diceva che appena sceso a terraunPentasugliapratico del mestiereera entrato nell'ufficio del telegrafodovel'impiegato aveva appena finito di annunziare a Palermo e a Trapani che gentearmata sbarcava da due legni sardi. Ripicchiavano appunto da Trapanidomandandoquanti fossero gli sbarcati; e il Pentasuglia aveva risposto egli stesso: - Misono ingannatosono due vapori nostri. - Poistato un istante ridendo asentirsi dare dell'imbecille da Trapanisubito aveva tagliato il filo.

*

Dunque la gran notizia era andatae a quell'ora la avevano già a Napolinella reggia. Ivi che sgomento e che collera! Se ne aspettavano ben altra. Ilgiorno 6 avevano saputo della partenza di Garibaldi da Genovae protestato coltelegrafo a tutte le Corti d'Europa contro il Pirata e contro chi lo doveva averfavorito. La mattina del 7il Re era andato a far le sue divozioni a SanGennaroe il Governo aveva mandato ordini alla flotta "d'impedire a ognicosto lo sbarco dei filibustieri; di respingere con la forza; di catturare ilegni." Poi erano stati quattro giorni d'angoscia mortale. E ora lo sbarcoera avvenuto! Ma ancora assai che l'invasore era andato a mettersi dal punto piùlontano dalla Capitale! Tempo e spazio per schiacciarlo non sarebbe mancato.Pure il colpo era tremendo.
Ancor più tremendo il colpo doveva essere sentito a Palermodove illuogotenente del Reprincipe di Castelcicalae i generali e l'esercito avevanocosì vicino l'uomo temuto. Chi sapeva mai in quale trambusto era la gran cittàse anche la popolazione era già venuta a conoscere che il Garibaldi annunziatoda Rosolino Pilo stava in Sicilia davvero?
Intanto a Marsala bisognava vegliare. Potevano giungere nella notte numerosetruppe da Trapanida Sciaccadal mare; e l'impresa garibaldinacosì benriuscita nella traversata e nello sbarcofinire là in quella piccola cittàcome già quella di Pisacane a Sapri.
Ma la notte passò tranquilla; verso l'alba furono ritirati gli avampostiraccolte le compagnie e tutto approntato per la prima marcia verso l'interno.

In marciaalto

Alla chiamata non mancava neppure un uomo. Ed era naturale. Ognuno sentiva insé il pericolo di rimaner isolato; ognunoper quanto piccoloaveva coscienzadella propria responsabilità. Quasi staccati dal mondoridotti per dir cosìin un campo chiuso dove erano discesi a mettersi da sécomprendevanochi piùchi menomolti forse confusamenteche trovarvisi non voleva dire soltantoessere in guerra contro altri soldati ne' quali da un'ora all'altra si sarebberoimbattuti; e che quella che erano venuti a cercare non era una guerra come tuttele altre. Vincere dovevano ad ogni costoperché dall'isola non potevano piùuscire che vincitori; ma soprattutto bisognava non lasciar perire Garibaldi. Eracoscienza dunque che ognuno desse tutto sé stessoe che tutti insieme sifacessero amare dal popolo siciliano per virtù e purezza in tutte le azioni.Perciò si udirono fieramente rimproverar dai compagni certi pochi che nellanotte s'erano dati bel tempo. Diceva Enrico Moneta da Milanopiccolo soldatinodella 6° Compagniadi diciannove anniuno dei quattro fratelli che l'annoavanti erano stati Cacciatori delle Alpidiceva che chi era là per aiutarequel mondo a mutarsidoveva badare ad essere austero ancor più che prode. -Per di piùquella che stava per accendersi era sotto un certo aspetto una veraguerra civile. E se per quella trafila doveva passare l'Italia a divenirenazionebisognava badare a farsi onore e a far onore anche al nemico purvincendoloper lasciargli possibile l'oblio della sconfitta senza viltàefacile e pronto il ritorno all'amore.
Tali spiriti si venivano formando negli animi anche di quelli che non avrebberosaputo spiegarsi a manifestarlicosì come uno quasi senza che se ne avveda siritempra d'aria pura.

Schierate fuor di Marsala sulla via che mena a Sciaccastavano tutte lecompagnie con gli altri piccoli corpi. Il tempo era bello e frescola guazzasull'erbe magre di quello spiazzo pareva quasi una brinata. Il mare dormiva:lontanigià verso l'Egadii legni napolitani rimorchiavano il Piemonte. E pertutto era una quiete diffusaanche nella città che pareva avesse giàdimenticato il turbamento del giorno innanzi. Pochi cittadini si aggiravanointorno alle compagnie. Qualcheduno armato di doppietta era là per seguirle.Faceva senso tra gli altri un signoreforse di trentacinque o quaranta annitaciturno e pensoso. Si chiamava Gerolamo Italia. Egli di là fino all'ultimo diquella guerra nel Regnomarciò poifido alla 6° Compagniasemplice militesempre pensoso e modesto.
Una tromba suonò in distanzapoi comparve Garibaldi a cavallo. Indossavacamicia rossaportava i calzoni grigi da generale ma senza le strisced'argentoe in capo teneva il suo solito cappello dalla foggia che allora sidiceva all'Orsini o anche all'ungheresecome glielo hanno poi fatto gliscultori quasi in tutti i monumenti; e gli sventolava dietro un gran fazzolettoannodato al collo. Teneva il mantello americano ripiegato sull'arcione davanti.Dietro di lui cavalcavano il suo stato maggiore e alcuni delle GuideNullo tragli altribellissimo nella sua divisa del '59tutta grigia con alamari neri egalloni da sergente. Pareva col suo cavallo un solo getto di bronzo. Il Missoriindossava la giubba rossa da ufficiale con alamari d'oro.
Al passaggio del Generale non furono presentate le armi. Egli certe cose non levoleva. Tirò viaguardando le Compagnie molto ilare in viso; poi queste simosserofianco destrotrombe in testa e partirono. Quelle trombe suonavano learie semplici ma pungenti de' bersaglieri di La Marmora; il passo dellecompagnie era franconessuno si sentiva più mareggiare il terreno sottocomeil giorno innanzi dopo lo sbarco; e quando spuntò il sole cominciarono i canti.
A forse un miglio da Marsalala testa della colonna svoltò per una viatraversa chestaccandosi dalla consolaremenava verso l'interno tra vignetiallora già in pieno rigoglio. Passati i vigneti cominciarono gli olivetiepareva che quella prima marcia dovesse condurre a vedere meravigliose colture.Verso le undici la colonna fece il grand'alto in una concapresso una casabiancafrescasilenziosacon a ridosso delle fitte macchie d'olivi vetusti. LàGaribaldiseduto a' piedi d'uno di quegli albericome se fosse l'ultimo diquella gran Compagniasi mise a mangiar del pane. Tutta la conca era popolatadi gruppitutti mangiavano gagliardamente il saporito pane di Marsala; quanto aberepei novellini che s'erano imbarcati senza fiaschettac'era presso la casaun pozzoe intorno a questo molti facevano ressa contendendosi un poco d'acqua.Il Generale guardava con certa compassione quei poveri ragazzi: "Poveriragazzi!" come fu udito dire egli stesso.
Ripresa la marciaspuntato il valichetto del colle in cui giaceva quella concala colonna si vide davanti una distesa ondulata senz'alberisenza caseildeserto. - Come la Pampa! - dicevano alcuni che nella loro vita avevano vistol'America. E in quel deserto s'inoltrò la spedizionesotto un soleah chesole! E che peso i panni! Felici coloro che ne avevano appena indosso tanto danon andare scoperti.
E quella prima marcia fu una gran provama nessuno rimase indietro. Eppurec'erano dei giovanetti che ad ogni passo parevano doversi lasciar cadere interra sfiniti. Ma lo spirito li reggevae continuavano a marciareaiutatianche dai compagni più esercitati che levavano loro fino il fuciletanto chericogliessero un po' di fiato.
Dove mai si sarebbero fermati?
Per quanto guardassero a sinistraa destra e davantinullamai un ciuffod'alberimai una casa. Cosa era dunque la Sicilia già granaio d'Italia? Degliuomini pratici di campi dicevano che tutta quella miseria dipendeva daldisboscamentoaltri che dai latifondidal feudalesimodai frati. Il fatto erache quel deserto metteva un senso di sgomento nei cuori. Là sarebbe stato bellotrasformarsi in un esercito di legionari alla romana con la marrala vangagliaratri di Lombardia! Ma là non c'erano le acque di Lombardia; anzi non ci sitrovava neppure da dissetarsi. E alcune voci intonavano il coro del Verdi:'Fonti eternepurissimi laghi...'

*

Finalmente quando già si faceva seraapparve lontano un corpo di casamassiccio e scurosu di un rilievo un po' più spiccato di quella campagna. Erail maniero di Rampagalloquello che si chiamava bellamente feudocome se làil feudalesimo fosse ancora una cosa viva. E tuttodai muri massicciallefinestrealla gran portaai cortili dentroai contadini che vi si aggiravanotutto vi aveva infatti una fisionomia d'antichità corrucciata.
Le Compagnie si accamparono davanti a quel vasto casamento su di un pendioerbosoche dopo l'arsura della lunga giornata pareva dar un carezzevole sensodi refrigerio. A pié dei loro fasci d'armemangiarono il loro panee insilenzio si addormentarono.
Ma i pochi che per servizio dell'accampamento vegliavanovidero di prima notteentrar nel gran cortile di Rampagallo una piccola schiera d'uominiforsesessantacondotti da tre o quattro cavalierialti su degli stalloni piuttostoche sellatibardaticon attraverso sulle cosce dei lungi fucili. Gli uomini apiedi erano armati di doppiettacon alla vita la ventriera per le cartucce equalche pugnale. Vestivano panni straniparecchi avevano sopravesti e coscialidi pelli caprinee portavano in capo dei berretti quasi frigi o dei cappellaccia cencio. I loro capifratelli Sant'Anna e barone Mocartapassarono daGaribaldi. Egli fece liete accoglienze a quel primo manipolo che la Siciliaarmata gli dava; la scena era quasi da medio evo: pareva proprio che in quelleore in quel luogo quei signori fossero giunti per prestare l'omaggio a unconquistatore.
Ma Garibaldi che sapeva ricevere come un renello stesso tempo sapeva parerequasi inferiore a chi gli si presentavaonde quel fascino e quel suo dominiosui cuorida cui subito quei siciliani si sentirono presi. E uscivano da quelricevimentomagnificando.

A Salemialto

A levata di soleil giorno appresso che era domenicala colonna si mise incammino. Andava alla testa la 1° Compagnia con Bixioil quale aveva l'ordined'avanzarsi fino a Salemigrosso borgo che fu presto veduto apparire lontano incima a un monte. Bella vista a guardarloma poveri petti! La salita lassù fufaticosissima e lunga; peròquando le compagnie vi giunseroprovarono unforte compiacimento. Tutta la gente aspettava gridando: "Garibaldi!Garibaldi!" storpiandone il nome con alterazioni strane; ma insomma era unvero delirio. E le campane squillavano a festa; e una banda suonava delle arieeroiche. Via via che le compagnie giungevano nella piazzasi trovavano avvolteda uominida donnepersin da preti; e tutti abbracciavanomolti baciavanomolti porgevano boccali di vino e cedri meravigliosi. Ma v'erano anche deipoverettitroppi! i quali stendevano la mano per dar a capire d'aver famefacevano certi segni da parer nemici se non fossero stati i loro occhi pieni diumiltà. - E noi pure abbiamo fame! - rispondevano quei soldati stizzitimaparecchi davano degli spiccioli a quella povera genteche largiva lorodell'Eccellenza.
E Garibaldi qual è? Domandava la folla. Passava Turr. E' questo? No. PassavaCarini. Dunque sarà questo? No. Ognuno dei più belli e prestanti tra i grandidella spedizioneper essa doveva essere Garibaldi. Chi sa quale se loimmaginavano! Ma quando lo videroquei siciliani quasi quasi siinginocchiarono. Oh che visoche testache santo! Egli sorridendo si levòcome poté dalla turbae andò a mettersi al suo lavoro.
Cominciava così a formarsi intorno a lui la leggenda che pigliò poi tanteforme; da quella che un angelo gli parasse le schioppettatea quell'altra chefosse parente di Santa Rosalia e fin suo fratello.
Stettero poco a giungere delle cavalcate da tutte le partie poi drappelli diinsorti come quei della notte avantia centoducentotrecento; e chi portavalo schioppo ancora a pietra focaiachi la doppiettachi fino il trombone. I piùerano armati di picchee tutti insiemeper quelle viuzze a salite e disceseripidefacevano un chiasso più da sagra che da rivoluzione. Ma si udivanoanche delle grida ingiuriose ai Borbonie delle canzoni che ferivano il nome diSofia regina. E spiacevano.
Dopo mezzodì fu affisso alle cantonate un proclama.
Ah! Ora dunque tutto è nelle mani sue! - dicevano i militie pareva loro chequel titolo di Dittatore infondesse una forza di disciplina superba. E pensavanoal nemico. Non si sarebbe fatto vedere! O bisognava andare a trovarlo? Giàdisalir lassù a Salemi per trovar loronon avrebbe certo tentato. Chi sapevamai! Ma a buon contogià dalle prime oreerano partiti per gli avamposti iCarabinieri genovesie più lontano ancora era andata una mezza squadra dellaCompagnie di Bixio. In quella squadracomandata dal giovanissimo EttoreFilippini venezianosi trovavano da semplici militi Raniero Taddei ingegnere eAntonio Ottavi tutt'e due da Reggio Emiliaufficiali esperti e consideratinelle guerre passate; e così da quella parte il servizio di campo era beneaffidato.
Intanto gli artiglieri avevano già piantato alla meglio una sorta di officinadove lavoravano a costruir gli affusti pei canoni di Orbetello. Giuseppe Orlandoe Achille Campocoi soli e primitivi strumenti che avevano potuto trovare daicarrai di Salemi riuscivano a far miracoli di meccanica; e il giorno dipoi i trecannoni e la colubrinarimessa un po' a nuovo anch'essa sul suo carrettofacevano buona promessa che nello sparo non si sarebberorimboccandosiindietroavventati addosso ai loro serventi.
E quel giorno fu veduto giungere in Salemi un giovane monacoraggiante diquell'allegrezza che ognuno ricorda d'aver letto in viso ai sacerdoti del '48.Chi non aveva udito benedire la patria da qualche pulpitoin quell'anno chepareva ancora tanto vicino? E poi appressodall'oggi al domanile chiese eranodivenute mute. Pio IX s'era disdettoe la coscienza delle moltitudini tra lapatria e la religione s'era confusa. Purea non lungo andarele moltitudiniavevano poi ripreso lume da sée poiché la patria doveva a ogni modo rifarsio s'erano messe ad aiutar la grand'operao se non altro avevano lasciato che siandasse svolgendospettatrici non ostili né indifferenti. Ma laggiùnell'isoladove il clero viveva ancora delle passioni civili del popoloisacerdoti in generale erano caldi patriotti.
Quel monaco si chiamava fra Pantaleo. Era un bello e robusto giovane di forsetrent'anniche parlava come se fosse uscito allora da un cenacolo miracolosodonde avesse portato via il fuoco degli apostoli nell'anima e nella lingua.Piacque ma non a tutti. Tra quella gente dell'alta Italiav'erano i diffidentie gli avversi per sistema agli uomini di chiesa; ma poiché Garibaldi accolsebene il monacoe lo chiamò l'Ugo Bassi delle sue nuove legionianche quellirispettarono il frate e lo lasciarono predicare. Intanto riconoscevano che laparola di lui immaginosa e ardente era una forza di più.
Continuavano ad arrivare squadre alla spicciolatae tra quello scorcio digiornata e tutta l'altra appresso si poté calcolare alla grossa che quegliinsorti fossero già due migliaia. Non dovevano essersi mossi da lontanissimoanzi era da presumersi che fossero tutti della estrema parte occidentaledell'isola; dunque una volta che Garibaldi si fosse avanzato verso il centrosisarebbe trovato tra popoli che avrebbero fatto levar su il fiore della gioventùpronta a seguirlo. Frattanto quelli che erano già lì si mostravano ossequentiguatavano con occhio cupido i fucili del Milleche per quanto meschini eranosempre armi da guerra; ma discorrendo di fatti d'armeessi così saldi a staral fuoco e a sparar da fermi contro il nemicoessi così destri e fieri neiloro duelli ad armi cortese sentivano parlar d'attacchi alla baionettaquasiraccapricciavano.
Piovve dirotto tutta la notte tra il 13 e il 14e poi tutto quanto questogiorno con tedio grande e grande stizza di tuttiperché il mal tempo li facevaindugiar lassù in quell'ozio. Ed essi erano tormentati da un desiderio inquietodi trovarsi alla prima provaper esperimentare il nemico con cui avevano dafaree di cuinon sapendo nulla di precisosentivano dir le cose piùstravaganti. Neppur dagli avamposti avevano segno che fosse in movimento. Chefaceva?

Il nemicoalto

Da Palermosin dall'alba del 6era partita una colonna comandata dalgenerale Landivecchio di settant'annipromosso di fresco a quel grado. Dasoldato egli aveva combattuto contro le rivoluzioni sicilianesin da quella del1820ed era venuto su grado grado in quella milizia stagnanteche sentivad'essere mantenuta più per assicurare il Re contro i sudditi che per difendereil Regno. Questo se ne stava infatti sicurocoperto com'era dallo Statopontificio e protetto dal mare.
Quel Landi era un uomo pio. In marcia si era fermato a sentir messa a Monrealeper santificare la domenicaproprio quella domenica in cui Garibaldi con laspedizione faceva il suo primo giorno di mare. Poicontinuando la sua via moltoadagioandando in carrozza alla testa della sua colonnail 12 aveva fattososta in Alcamo. Di là partito la notte per Calatafimiv'era giunto la mattinadel 13appunto mentre Garibaldi saliva a Salemi. Da Calatafimi aveva scrittolettere dogliose al Comandante in capo dell'isolaannunziando che prima dimarciar su Salemidove sapeva trovarsi una banda di 'gente raccogliticcia'voleva aspettare un battaglione del 10° di linea che gli avevano promesso.Ignorava ancora lo sbarco di Garibaldiignorava che quelle genti raccogliticceerano i Mille con Garibaldi in persona. Mail 14 sapeva già qualche cosa di piùe scrivendo parlava di 'emigrati sbarcati'. Si proponeva d'andare il 15 adattaccarli. Poi risolse d'aspettar a Calatafimi"posizione tutta militaremolto vantaggiosa all'offensiva ed alla difensiva ed essenzialmente necessariaad impedire che le bande si scaricassero su Palermo da quel lato dellaConsolare". E il 15fermo nel suo propositoscriveva che "tentare unassalto a Salemi sarebbe un'imprudenza ed un avventurare la colonna fra laimboscata nemica." Mostrava dunque di ignorare il numero degli avversari madi temerli: e veramente spie la Sicilia non ne diede a lui allorané ad altridopo; però egli li chiamava già 'Garibaldesi'. Tuttavia non nominava Garibaldiquasi che a scriver quel nome temesse di vedersi apparir lì innanzi ilterribile uomo. Forse ripensando al passatorammentava che quel giorno stessocadeva l'anniversario di due grandi fatti: il 15 maggio del 1848re Ferdinandospergiuro aveva fatta far la strage nelle vie di Napolichiuso il Parlamentotradita la nazione; il 15 maggio del 1849oppressa la rivoluzione in tutta laSiciliail generale Filangeri era entrato in Palermo vittorioso. E rammentandoforse quel povero Landi sperava.

*

Non si potrebbe dire se Garibaldipensando anche egli a quelle dateabbiaaspettato quel giorno 15 come una scadenza di buon augurio. Un po' preso dacerti fili era egli puree spesso la sua bella stella Arturo guardata da luigli aveva fatto venir su dal cuore il consiglio buono. Comunque siaall'albadel 15 maggiofatto leggere alle compagnie un suo ordine del giorno chepiantava nei cuori le risoluzioni suprememise il suo piccolo esercito inmarcia.
Le compagnie mossero con la sinistra in testae così andava innanzi alle altrela 8° bergamaschi; orgoglio di Francesco Nullo e di Francesco Cucchigranricco questi che dato di suo largamente a denaroadesso era pronto a darl'anima. Ma i carabinieri genovesi la precedevanoe le guide erano già assaipiù oltre di questi. Discendeva quella gente da Salemi per le giravolte che fala via calandosi nella valle; e Garibaldifermo ancora appena fuor da Salemilassùa quei che giunti a mezzo la china si volgevano a guardarloparevalibrato nell'aria. Il popolo della cittadetta affollava il ciglio del monteattorno alle murae gridava a modo suo gli augurii a chi se n'andava...Certamente quello sarebbe stato giorno di battagliae molti di quegli uominiche partivano non avrebbero veduto andar sotto quel sole che nasceva.
Coi Mille camminavano le squadre. Ed essi non già più cosìma le chiamavano'Picciotti'dilettandosi in questo nome paesano che pareva l'espressione delconfidente abbandono con cui quegli uomini si erano messi nelle mani diGaribaldi. Per vezzo chiamavano 'Picciotto' qualcuno delle compagnie che avessetipo più di meridionale: carissimi pel gran valore militarema dolci aricordare anche per questa cosa da nullaFerdinando Secondi da Dresano studentedi legge e Giuseppe Sisti da Pasturago studente di matematicadella compagniaCairoli. Parevano proprio nati dalla più bella gente aristocratica dell'isola.Altri d'altre compagnie si erano fin vestiti da 'picciotti'; bellissimo tratutti Francesco Margarita da Cuggiono che col berretto frigio nerocon lagiacca mezza fatta di peli e cosciali pure fatti di pellepareva un tipo dibaronetto da star bene in uno di quei feudi là intorno. Avevano smesso i pannidi gala e i cappelli a cilindroalcuni che s'erano imbarcati a Genova forseappena usciti dal teatro o da qualche salottoe anch'essi vestivano allasiciliana.
Dal capo alla coda della colonnacorreva come un fluido che fondeva sempre piùin un sentimento di forza e d'allegrezza tutti quegli animi; e via via che lacolonna avanzavapareva che ognuno fiutasse nell'aria la misteriosa presenzadel nemico. A un certo puntosi ripiegò sulla colonna un drappello di uominiche scendevano da certi pagliai fuori di mano nella campagna. Parevano irati.
Erano quelli della mezza squadra della Compagnia Bixioche andati agliavamposti da quarantott'oreerano stati via sotto la pioggia e fin senza pane.Raccontavano che poco avanti era capitato a trovarli lo stesso Bixioe che liaveva assai bruscamente ripresicome se avessero avuto qualche gran torto. Maessipazientida quel terribile che non mangiavanon dormivatempestavagiorno e notte non lasciando quiete neppur le pietresi erano lasciati dirtutto; e ora lieti di ricongiungersi ai compagnivi portarono in mezzo la grannotiziaSì! Il nemico doveva essereanzi era certo non lontanogià inposizione. Dunque tra poco la battaglia.
E intanto si vedevano le squadre dei 'Picciotti' svoltare per le vie traverseanche i cinquanta o sessanta che andavano a cavalloe allontanarsipigliare imonti. Dove andavano? Nessuno ci capiva nulla.

La bandieraalto

Durante una breve sostache fu fatta fare alla colonnapassò l'ordine dimandar la bandiera al centro della 7° Compagniaquella del Cairoli. Da Marsalafin làquella bandiera l'aveva custodita la 6° del Carini. E la portavaGiuseppe Campo palermitanouno che nell'ottobre avanti aveva tentato larivoluzione a Bagheria presso Palermoe che lasciato quasi solo era fuggitodall'isola a Genova. Ma ora tornava portabandiera dei Mille. Egli dunque con seimiliti della 6° andò al centro della 7° salutato da questa con molto onore. Eallora alla bandiera fu tolto per la prima volta l'incerato da Stefano Gattimantovano. Sfavillarono al sole da una parte del drapporicchissimi nei trecoloriemblemi d'argento e d'oro che figuravano catene infrante e cannoni edarmi d'ogni sortacon su un'Italiain forma d'una bellissima donna trionfantecolla corona turrita. E dall'altra partea lettere romane trapunte in orospiccava questa leggenda:

A Giuseppe Garibaldi
Gli Italiani residenti a Valparaiso
1855.

Su tre grandi nastri pendenti dalla cima dell'asta tutto bullettine d'orobrillavano pure d'oro tre parole che allora facevano sospirare come roba dasogni impossibili ad avverarsitre cose che ora perché si hanno pare sianosempre esistite: 'IndipendenzaUnitàLibertà'.Allora volevano esprimere semplicemente delle speranze e dei votima dicevanoinsieme che i donatori di quella bandierain quelle terre d'America da dovevenivatra i nativi e gli stranierisentivano più amari che in Italia ilrammaricola vergognail danno di non avere un nome patrio come gli inglesiifrancesigli spagnuolitutti gli europei emigrati come loropur sentendosida lavoratoripari e forse migliori. Ciò forse avevano voluto significare aGaribaldimentre egli dolente era passato pei porti del Pacifico: ed egli orain quell'angusta valletta sicilianatra gente nata e tenuta nell'ignoranzadell'esistenza d'un'Italiasventolava quella bandiera e gettava le sorti dellanazione.
Fatto un altro po' di camminola colonna giungeva a Vitapiccolo borgocaserustichemolte catapecchieuna chiesa. Parecchi di quelli che posaronol'occhio su quella chiesanon immaginarono di certo che la sera di quel giornovi sarebbero stati portati dentro feritia patirea veder morirea morire.Faceva brutto senso veder la gente di quel borgo fuggire a gruppia famiglieinteretrascinare i vecchi e pigliare i monticarica di masseriziemandandolamenti. Pareva che fuggissero a un'invasione di barbari. Ma quella gente sapevacosa c'era là vicino e ricordava eccidii recenti. La colonna traversò ilborgoe poco distante fece alto.
Passò Garibaldi frettoloso; domandò se le Compagnie avessero mangiato; se nomangiassero pure. Ma che cosa? Senza scomporre troppo gli ordinie ancheridendo giocondamentechi volle si adagiòe si misero tutti a sbocconcellareil loro pane: molti sbrancarono alquanto in certi piccoli campi di fave lì ailati della viae con quel companatico fecero il loro pasto.
Allora furono viste alcune Guide tornar trottando per lo stradale che sistendeva innanzi. Tra quelle il sessagenario Alessandro Fasola parevaringiovanito. Poi fu un correre di cavalli dal luogo dove stava Garibaldi alleCompagniee subito s'udirono due squilli di tromba. Tutti a posto e via comestormipigliarono quasi a volo un colle a destra brulloronchiosoarso dalsole. Vi si piantarono in cima ordinati.
E di lassùoltre una breve convalleforse a duemila metrividero su di unaltro colle rimpetto schierato il nemico. Era un balenio d'armi che coronava lavetta gran tratto; due macchie scure parevano due cannoni; certe linee netteprofilate nel fianco del colle facevano indovinare dei terrazzi sostenuti forseda muri a secco; filiere di fichi d'India rotte qua e là si spandevano dalciglio d'alcuni di quei terrazzi; forse nascondevano delle linee di soldati. Sudi un balzo del colle sorgeva una casetta; pochi alberi grami lassù; in moltipunti pareva la roccia nuda.
Di là da quel colle facevano sfondo alti monti. Grigiocon aspetto più dirovina che d'abitatosi vedeva lontano in altoa pie' d'un castelloun gruppogrande di caseche non si sapeva ancora chiamare Calatafimi. Nelle gole deimonti a sinistra formicolavano turbe di gente; le squadre partite da Salemierano anch'esse lassù; ogni tanto vi scoppiavano delle grida.
E quelli dall'altra partei napolitanividero anch'essi e lo narrarono poi peranni. Videro quella linea che s'era formata rimpetto a loro con movimenti nonsoliti tra gli insortirotta a tratti da macchie rosse. E stupirono. Noncapivano cosa volessero direo dubitavano che quei rossi fossero casacche digaleotti fuggiti da non sapevano quale bagno. I soldati ignoravano che fosse làGaribaldima s'accorgevano d'essere dinanzi a gente che doveva sapere star inbattaglia.
Mancava poco al mezzogiorno.

Il combattimentoalto

Dal 1814 quando i napolitani di Murat salirono fino al Posenza saper benese si sarebbero incontrati amici o nemici coi loro vecchi commilitonidell'esercito italico del Viceré Eugenio; e poi si offesero scambiando con essidelle cannonate: da allora non si erano più trovati di fronte italiani delledue parti estremearmati per darsi battaglia. L'ora dunque era solenne.
I due piccoli eserciti stettero ancora un pezzo a guardarsi. Garibaldi su di unasporgenza del colletra certe rocce che gli facevano riparo dinanzi a mezzo lapersonastava con TurrSirtoriTukoryosservando il nemico. Aveva datol'ordine di tener chete le Compagnie che non sparasseroe queste stavano cheteanzi a terra sdraiate.
I Carabinieri genovesi erano stati messi avanti a tuttigià un po' più giùnel pendio verso il nemico: dietro di loro la 8° e la 7° Compagnia giacevanostese in cacciatori a quadrigliee così era formata da loro la prima linea. La6° e la 5° Compagnia sul ciglio del collesdraiate anch'esse in ordine apertoformavano la seconda linea; tutto il battaglione di Bixioe cioè la 4°la 3°e la 2° Compagniastavano in riserva sul versante dalla parte di Vitama solopochi passi dal ciglio; più in giùquasi alla faldaera rimasta la 1°Compagniaquella di Bixioil quale la aveva lasciata al suo luogotenente Dezza.Egli si era portato avanti forse per trovarsi sempre vicino al Generaleper nonperderlo di vista maiquasi che in caso di sconfitta si sentisse di salvarloonon lo potendovolesse morirgli al lato.
Passavano le oree Garibaldiche di solito preferiva assalirenon sirisolveva all'attacco.
Sperava forse che nelle file nemiche si destasse qualche sentimento italiano?Chi lo sa! Ma si può crederlo perché aveva ordinato di portar nel punto piùalto la bandiera tricoloree di farla sventolare. Ad ogni modo sembrava cheavesse risolto cavallerescamente di lasciar ai Napolitani il vanto d'assalirprimi.
E verso il tocco squillò una tromba napolitana. Uno dei garibaldinicertoNatale Imperatori della 6° Compagnia Cariniche conosceva quella sonatadissesubito: "Vengono i Cacciatori!"
E difatticontro il grigio e il verde del suolofurono viste prima come unformicoliopoi più nettespiccate le divise cilestrine discendere allasfilataagiligiù pei terrazzi del loro colleserpeggiando tra i ciuffi difichi d'India. Erano addirittura due Compagnie. Giunti all'ultima falda delcolles'avanzarono pel po' di spazio che faceva la vallettae cominciarono iloro fuochi di sotto in su contro i garibaldini della prima fronte. Questi eranoi Genovesi. Chi li poteva tenere che non rispondessero al fuoco dellequadriglie? Pure durarono un pezzo senza sparare e peritissimi al tirogiudicavano impediti i nemici le cui palle passavano miagolando molto in alto:ma alla fine cominciarono anch'essi con le loro carabine di pochissimo scoppioma seccoacutoe le palle andavano al segno. Allora quei Cacciatori siarrestarono a scambiare ancora pochi tiricosì da fermicoi Genovesi. Masubito le trombe garibaldine suonarono l'attacco alla baionetta. Bisognava levarle Compagnie dalla tentazione di sprecar di lassù le munizioniperché i piùnon avevano che dieci cartuccee i fucili non portavano più che a quattrocentometri. Le Compagniea quegli squillibalzarono ritte come sorgessero dallaterra improvvisee si rovesciarono giù dal colle una dietro l'altracorrendoscaglionate oblique giù per la chinama mirabilmente compostepois'allargarono in ordine sparsoquando i cannoni napolitani cominciarono atrarre granate.
Lo narrarono poi molti che stavano allora nelle file nemiche. Quel movimentofatto così di lancio e con sicurezza da veteraniprodusse in loro un effettoindicibile. Ma non si sgomentarono. E fu beneperché per la loro mirabileresistenza meritarono d'esser lodati nell'ordine di Garibaldi il giornoappresso; e la lode poté forse sugli animi più della stessa vittoria riportatada chi li lodava.
Così il bel fatto d'arme era cominciato.
In un lampo le due Compagnie di Cacciatori furono spazzate vialasciando essealcuni caduti in quel fondobei giovani d'Abruzzodi Calabriadi chi sa qualedi quelle terre delle rivoluzioni gloriose e infelici. Sul berretto elegante abarchettaportavano il numero 8 - 8° Cacciatori! - E indossavano delle divisedi tela cilestrinagiubba cortaelegantesu cui s'incrociavanopittorescamente le corregge degli zaini e della fiaschetta a zuccaschiacciatae foderata di cuoio. La loro carabinapei tempi d'alloraera perfettissimaela daga baionetta faceva pensare a quelle terribili degli zuavi. Poveri ragazzi!
Come fanno stringere il cuore l'eleganza delle divise indosso ai morti suicampie quelle cose e quei numeri e quei nomi dei corpi! Coloro che giacciononon hanno più né vita né nomené paese né nulla: a casa loro i parenti nonsapranno la zolla che beve il loro sanguené l'erba su cui spirarono l'ultimofiato. Solo non li vedranno mai più; essi son morti.
Triste cosa la guerra! Ma allora pareva ancora bella perché vi si potevapatiremorireper far trionfare un'ideapiù che perché vi si potesse provarla gioia e la gloria di vincere.
Rispettate i nemicirispettate i feriti! - gridò Francesco Montanari diMirandolacaduto per grave ferita su quel colle - sono italiani anch'essi! -
E la sua faccia severaquasi dura e in quel momento contratta dal doloreparvetrasfigurata da quella sua sublime pietà.
A che ormai descrivere il fatto d'armi di Calatafimi?
Le battaglieda quelle che descrisse Omero all'ultima della storia modernasisomigliano tutte. Sono furia d'uomini contro uomini che s'avventano gli uni aglialtridandosi a vicenda da vicino o da lontano la mortecon più o meno artesecondo i tempi. Cortesi fin che si vuolei combattenti son sempre ancor pocodiversi "dagli uomini sul vinto orso rissosi."
Eppure leggiamo rapiti dalle narrazioniammirando fatti che in sé sono atrocie ci esaltiamo e chiamiamo magnanimo tanto chi dà come chi riceve la morte incampo. Ci pare sovrumano il maresciallo Ney a Vaterlooquando nella tragica oradella sconfitta già imminentegrida con voluttà disperata che vorrebbe tuttinel petto i proiettili dei cannoni inglesi rombanti nell'aria. Sublime ci parequell'oscuro lanciere franceseche làin una delle ultime cariche dicavalleriagittò la sua lancia in mezzo a un quadrato ingleseper andare araccattarla come per gioco in quel quadrato; e spronò e balzò e cadde egli eil suo cavallo sulle siepi di baionetteschiacciando altri e morendo. Chi maici pare più grande di lord Cardiganquando ricevuto l'ordine di assalire labatterie russe a Balaclavasa che vi morrà eglil'ultimo di sua schiattaforse con tutti i suoi seicento cavalieri; ma snuda la spada e gridando:"Avantiultimo dei Cardigan!" galoppa alla morte come se volasse alcielo?
Ma quel Montanari e quel suo gridoson ben più degni di storia.
Quello di Calatafimi fu fatto d'arme che appena potrebbe stare come frammentoepisodico di una di quelle grandi battaglie. Eppur e per l'importanza e perl'influenza sua sulla vita della nostra nazioneconta quanto e forse più diciascuna d'esse per le altre. E il Generale? L'arte di Garibaldimirabile giànell'aver saputo creare in tutti i suoi un sentimento profondosicurosuperbodella loro situazionenei tre giorni avanti; in quello del fatto d'armistettetutta nell'averseli tenuti stretti nel pugno come un fascio di folgorifino almomento in cuinon essendo più possibile in nessun modo lasciare il campo nonvincitoripoté abbandonar ognuno al comando di sé stessocerto egli che daquel momento si sarebbero svolte le più recondite virtù e le forze e l'ingegnod'ognunodalla calma pontificale di Sirtori al furore di Bixioall'impetogeniale di Schiaffinoall'audacia di Edoardo Herterd'Achille Sacchidi centoaltriesi può dire di tuttiperché un codardo che è unoin quell'orainquel luogonon ci poté più essere. E il merito di questo miracolo fu tuttodel Generale. L'anima sua era entrataera presente in tutte quelle animefosseegli in qual si volesse punto del campo. Due momenti della pugna furonoesclusivamente suoi: unoquello di quando Bixioche era Bixioosòdomandargli alla maniera sua se non gli paresse il caso di battere in ritirataed egli rispose che là si faceva l'Italia o si moriva: l'altroquellodell'ultimo assaltoquando tutti rifiniti boccheggiavano sotto il ciglio delcollesu cui si erano ridotte via via risalendo le schiere nemiche scacciate daterrazzo a terrazzo in su. Là disperavano tuttinon egliche parlando pacatoandava per le file come un padre con gli occhi rilucenti di lagrime:"Riposatefigliuolipoi un ultimo sforzo e abbiamo vinto." Fu inquel momento che lo colpì nella spalla destra uno dei sassi che i borbonicifacevano rotolar giù; ma egli non degnò mostrare d'essersene accortoecontinuò a mantenere quell'aria sicura che creava la sicurezza altruiin quelquarto d'ora in cuise i borbonici avessero osato rovesciarsi giù allabaionettain più di duemila quanti erano ancorala rotta era sua. Essiinveceraccolti lassùurlavano: 'Viva lo Re'; rotolavano sassie tiravanoschioppettate a chi si faceva su dal ciglio a guardare. Uno di questi fu EdoardoHerter da Trevisomedico di 26 anni. Pareva una damigella bionda vestita dauomotanto aveva esile l'aspettoma i suoi muscoli erano d'acciaio. Parlò conGaribaldi un istantepoi si lanciò su per un greppo.
'Ah piangerà tua madre!'
fu cantato di luie appena sucadde riverso colpito nel petto a morte.
In quel momento l'artiglieria garibaldina tuonò di giù dalla stradadove allafine aveva potuto mettersi a tiroe un suo proiettile andò a cadere tra iregii. Fu come il segno della ripresaperché poco appresso si fece come unsubbuglioe fu gridato: "La bandierala bandiera in pericolo!" E labella bandiera di Valparaiso fu veduta salirecome se andasse da sétrascinando dietro ai lembi delle sue pieghe quanti vi s'affollavano presso.
Passata dalle mani di Giuseppe Campo a Eliaa Menottia SchiaffinooraSchiaffino la portava all'ultima prova. E giùstaccati dalla loro fronteunostormo di napolitani corsero per pigliarsela. Allora le si formò un viluppointornocozzo brevefieroferocevera mischia; e la bandiera sparìlasciando uno dei suoi nastri nel pugno di Gian Maria Damiani. E Schiaffinoilsuperbo nocchiero del Lombardogiacque là morto.
E' questo il momento d'annunziarmi una pubblica sciagura? - gridò Garibaldi achi gli dava notizia di quella morte. Ma proprio in quel momentoin un altropunto della battaglia scoppiava un urlo di gioia... Un cannone era preso.Fumigava ancora la sua gola dell'ultimo colpo sparato contro quelli che vis'erano lanciati su primiprimo Achille Sacchi da Paviagiovanetto didiciassett'anniche cadde già con le mani sulla volata di quel pezzo e giacquemorto.
"Ancora uno sforzo!" e lo sforzo era fatto. Erano balzati su fino imoribondi; l'ultimo assalto alla baionetta fu veramente meraviglioso. Inapolitani non vi resserosi volserorovinarono via.
Non però tutti in fuga. Avevano cominciato i Cacciatori e i Cacciatorifinivano. Mentre la fanteria e i Carabinieri napolitani si ritiravano confusi giùpel declivio del colle perduto; quei Cacciatoricome stessero in un campo aistruirsifacevano le loro fucilate a quadriglieallontanandosi lentamente.Fin Garibaldi stette a mirarli un pezzoin quelle loro belle mosse; ma poidiede ordine di caricarli a una delle Compagnie che appena conquistato il collegià si erano quasi riordinate intorno ai loro ufficiali. Corse la 6°Carini.E quell'ultimo strascico del fatto d'arme fu presto levato. Tutta la colonnaborbonica si sprofondò nel vallonesparì un momentopoi ricomparve di là.Saliva l'erta per Calatafimi. La chiudeva un manipolo di cavalliforse mezzosquadroneche durante il combattimento s'era tenuto giù sullo stradalecertoaspettando di potersi gettare sui nemici vinti a sciabolarli. Invece oraproteggeva la ritirata ai suoi. Dal campo di battaglia fu vista quella genteserpeggiare su per l'erta lungastendersi e di nuovo sparire poi più suapoco a pocoin Calatafimi.

Dopo la vittoriaalto

Sul colle conquistato riposarono i vincitori. E cominciò subito la raccoltadei feriti graviche non avevano più potuto reggersie giacevano giù peifianchi del collemoltitroppiper un fatto di così pochi combattenti e dicosì corta durata. Tra grave e non gravi erano 182i morti 31. Le ferite eranoorribililaceratelarghemassime quelle fatte dalle palle ogivali cave deiCacciatori. Pochi napolitani che i loro non avevano potuto portar viasilasciavano pigliar su meravigliati di vedersi trattati benementre s'eranoforse aspettati d'essere uccisi. All'allegrezza della vittoria si mescolava cosìquella grande malinconia. E s'era messo un vento freddo che faceva frizzar lapelle. Calavano intanto dalle montagne le squadre dei 'Picciotti'e invadevanoil campo di battagliameravigliati anch'essi del combattimento contemplatodall'altocome dai gradini d'un anfiteatro una lotta di gladiatori.
Garibaldi guardava sempre una strada che da ponenteper una golametteva inquella specie di conca da cui sorgevano su i due colliquello della suaposizione del mattino e quello conquistato su cui si posava coi suoi. Forsetemeva l'arrivo di un corpo nemico da Trapani. Ma aveva fatto mettere gliavampostie dato l'ordine a Bixio di collocare le artiglierie. Aveva anche giàdetto di voler salire a Calatafimi il giorno appressoe sapeva lui per qualivie si sarebbe incamminato. Per quella fatta dai Napolitani nella ritirata nocerto: e questo capivano tuttiperché tentar un attacco da quella partesarebbe stata una follia. Ma egli era allegro in visoe ciò bastava.
Uno strano sentimentoche tutti dovettero provarema di cui si accorsero e selo spiegarono per dir così solo i più raffinati allora e molto di poi anchegli altriripensando a quelle orefu quello dell'isolamento in cui sitrovavano. Non erano passati che dieci giorni da quando avevano lasciato Genovaeppure pareva loro d'essere via da mesi e mesid'aver navigato moltod'avercamminato moltod'esser già quasi gente dimenticata. Si sapeva nell'AltaItalia che erano sbarcatiche erano stati accolti bene? Qualche spiritualeforza dava almeno in quel momento un senso vago del dove si trovavano e dellaloro vittoria? A Milanoa Genovaa Torino e nella Venezia gemente in maniaustriacheper tutti i borghi e i villaggi da dove qualcuno d'essi s'era mossocosa si pensavacosa si speravacosa si temeva per loro? Ah! Un filo ditelegrafo per mandare la gran notizia alla patria e riceverne una parola. Certoda Napoli sarebbe taciuta o mandata pel mondo svisatafalsata la notizia dellabattaglia a far piangere.
E intanto erano scene di gioiacome a rivedersi dopo anni ed anninell'incontrarsi fra loro amici di casadi scuoladi Compagnia che si eranoperduti di vista durante il combattimento e che si ritrovavano sani e salvi. Ederano lamenti per i cadutiil tale giù ai primi colpiil tal altro a mezzo alcolleun altro addirittura in cima quasi in braccio ai nemici. Andavano acercarlia guardarlia baciarli. E così i nomi dei morti e dei feritiilmodoil comeil doveil quandotutti i particolari se li scambiavanoeparlavano commossima tuttavia ancora con un po' del sentimento egoisticod'essere usciti salvi dal pericolo in cui altri aveva lasciato la vita. Si sa;il vero dolorequello grande e sincero viene dopoquando il sangue si èrimesso in calma e la pietà si ridesta.

Tra le Compagnie che si erano riordinatesi faceva un gran parlaredell'importanza del fatto; qua e là in quel campo ci parevano dei piccoliParlamenti. Quelli che avevano sentito Garibaldiquando aveva detto a Bixio:"Qui si fa l'Italia o si muore" commentavano le solenni paroleepareva proprio a tutti di sentirsi piantato in cuore che il fatto d'armipiccolo in séera già come un'ultima battaglia risolutivada combattersiancora sìnon si sapeva dove né quandoma già vittoriosi. E ciò volevadire l'Italia fatta sin da quel giornosu quel colle.
Il qual colle aveva tuttavia un nome di malaugurio. Era stato subito detto chesi chiamava 'Pianto dei Romani'perché ivipiù di duemila anni indietroquesti erano stati vinti dai Segestani e dai Cartaginesi. Ma quel nome dimestizia era un'invenzioneo per lo meno una interpretazione errata. 'Pianto'non è che il vernacolo siciliano 'Chiantu'o piantamento di viti; e uno n'erastato fatto far su quel colle da un'antica famiglia Romano. E difattiquei taliterrazzi dovevano essere stati fatti per dei poderosi filari di vitisebbeneallora vi si vedessero soltanto arbusti gramie piante che esalavano un tristoodore di cimitero. Cosìe durante il combattimentoaveva detto il livorneseGiuseppe Petrucci della compagnia Bixiofacendo parer ai vicini di fiutardavvero un'aria di morte.

*

La notte calò rapida come nelle giornate più corte dell'anno. E in quelcrepuscolo fu commovente veder un gruppo di sei o sette Francescanii qualidopo aver combattuto fino con trombonipartivano per tornare al loro convento.Erano accorsi là da Castelvetrano. A quell'ora se ne andavano giù dal collenei loro tonaconi grossicon le loro armi in spallaseri e tranquillicome setornassero da aver fatto la questua tra quei soldati che avevano famee stavanodivorando pane e cacio distribuito in fretta già quasi nel buio. Poi leCompagnie si addormentarono.
Al tocco dopo la mezzanotte la sentinella dell'avamposto verso Calatafimi diedel'alto a due persone che le venivano incontro.
- Amicigalantuomini di Calatafimi.
- Avanti. -
Tutto l'avamposto fu subito in piedi.
- Cosa volete? -
Con l'anima nelle parolequei due galantuomini recavano che i Napoletaniavevano abbandonato Calatafimimarciando verso Alcamoche stava di làdi là...
La notizia era lieta. Levava la gran preoccupazione di ciò che sarebbe potutoavvenire il giorno appresso. Da Palermoa quell'orapoteva già esser giuntoper nave a Castellamare un corpo di aiuto ai vintie con tutta comodità avermarciato da Castellamare a Calatafimi. Ora se i Napolitani se n'erano inveceandaticiò voleva dire che a Palermo non c'era un generale che avesse occhi.Benebene! Quei galantuomini furono condotti da Garibaldiche stava ben destonella casupola sul collee che gli accolse con gioia. Fatta l'ambasciatavolevano tornarsene; ma eglinon li volendo lasciar esporsi a pericolise litenne fino al mattino. Avrebbero marciato con lui. Ed essi non s'accorsero cheforse diffidava di lorotanto era buona e incredibile la notizia che gliavevano portato.

*

Nel brivido che dà l'albaprima ancora che le trombe suonassero le svegliemolti di quei militimezzo intirizziti dalla gran guazzagiravano già pelcampo a rivedere i morti. Di questi ve n'erano che parevano dormirsenesicurissimi d'essere svegliati a lor tempotanta era la pace che avevano nelvolto. Così Giuseppe Bellenocosì Giuseppe Sartoriiotutti e due Carabinierigenovesi; questo colpito nel petto proprio nel momento che fulminava un granfante borbonicomirato a prova da lui. Aveva data e ricevuta la morte in unpunto. Poco discosto giaceva Ferdinando Cadei di Caleppiobel giovane diventun'annoche adagiato sul fianco destro pareva sogguardasse timidamente.Carlo Bonardi da Iseo non si trovava più nel luogo dov'era caduto e rimastomorto bocconiné per quanto gli amici suoi cercassero là attorno vedevano lesue larghe spalle da atletané il mantello che portava rotolato a bandolieraancora nell'ultimo istante. Cosa n'era mai stato? Invece il gran Schiaffinocopriva ancora la terra là dove l'anima sua lo aveva lasciato. Era solo un po'scolorito in viso. In uno dei puntidove la resistenza del nemico era stata piùfortegiaceva Luciano Marchesini da Vicenzacol capo su d'un sasso nero chepareva un libro. "Come il Battaglia l'anno scorso a San Fermo!" dicevaOdoardo Rienti da Como. E narrava di Giacomo Battaglia poetache combattendotra i Cacciatori delle Alpi cadde a San Fermo colpito in frontee tratto ditasca un suo Dantino se lo pose sotto il capo e sul poema divino spirò. Un po'più in sue proprio sulla cima del colledove erano stati fatti gli ultimicolpigiaceva come un assiderato Eugenio Sartori da Sacile. La morte chetoccandolo quasi per saggiarlo a Venezia nel '49lo aveva lasciato tornare allemense patriarcali di casa suase l'era preso lì. Egli nonon pareva in pace!Gli occhi non gli si erano ancora chiusiedopo tante oreil suo visoesprimeva sempre una gran collera da battaglia.
E via via cercati cosìi morti furono rivisitati quasi tutti. Ma alla finebisognò pure che i vivi gli abbandonassero. Sarebbero poi venuti i seppellitoria scavare a ogni morto una buca lungo il corpove l'avrebbero fatto rivoltar giùforse con malgarbopoi o sul corpo o sul dorsopoche badilate di terra eaddio. Un dìchi sa quandoqualcuno verrebbe a scoprire delle ossa.

*

Le compagnie partirono. E per la stessa china e poi per la stessa erta fattadai Napolitani la sera avantimarciarono a Calatafimi. Ivi trovarono la genteancora scompigliata. Quei poveri abitanti avevano visto dalle loro caseilcombattimento del Pianto Romanoe poi i borbonici tornare vinti tra loro. Eranostati gran parte della notte tremando che il mattino portasse loro uno scontronelle stesse vie della città tra le loro case: invece i borbonici eranopartiti. Ma potevano sopraggiungerne di nuovi. Insomma la fisionomia generaleera triste. Nella via maestra si trovavano a ogni passo i segni della sostafattavi dai vinti; nelle poche botteghemisere assainon c'era più nulla;quelli avevano portato via ogni cosa.
Ma le Compagniea poco a pocomisero un po' di fidanza e d'allegrezza; tantopiù poi nel pomeriggioquando fu lor letto l'ordine del giorno di Garibaldi.Era uno de' suoi più eloquentie parve la voce di tutta la patria.
"Soldati della libertà italianacon compagni come voi io posso tentareogni cosae ve lo mostrai ieri conducendovi alla vittoria contro un nemicosuperiore per numero e per le sue forti posizioni. Io avevo contato sulle vostrefatali baionettee vedete che non mi sono ingannato.
"Deplorando la triste necessità di dover combattere soldati italianidebbo confessare d'aver trovato una resistenza degna di causa migliore. E questovi mostra quanto noi potremo farequando l'intiera famiglia italiana saràriunita intorno a una sola bandiera.
"Domani il continente italiano sarà parato a festaper la vittoria deisuoi liberi figli e dei nostri prodi siciliani.
"Le vostre madrile vostre amantiusciranno nella via superbe di voiconla fronte alta e radiante.
"Il combattimento ci costò molti cari fratellimorti nelle prime file; enei fasti della gloria italiana risplenderanno eternamente i nomi di questimartiri della nostra santa causa.
"Paleserò al nostro paese i nomi dei bravi che con sommo valore condusseroalla lotta i più giovani e i più inesperti militie che domani li guiderannoalla vittoria su altri campia rompere gli ultimi anelli delle catene chetengono avvinta la nostra Italia carissima."
I nemici! Ve n'erano in Calatafimi parecchiferiti il giorno avanti eabbandonati làperché per via avrebbero patito troppo. I vincitori andavano atrovarli nelle chiese e nei conventili confortavanoli carezzavano. Ed essidicevano che non sarebbero più tornati alle loro bandiere. Cominciava giàallora la fratellanza; solo qualcuno guatava bieco e mormorava sdegnoso.
Dai Francescaniprodigava la sua carità un padre Luigiil quale fu poiamorosissimo nei giorni appresso ai garibaldini portati là da Vitadove nonc'era luogo per tenerli se non ammucchiati come nelle prime ore dopo ilcombattimento. Forse quel frate si sentì prendere fin da allora da quella forzaper cui ebbe il coraggio di spogliar l'abitodi lasciarsi portar via dallarivoluzione nella vita nuova italiana; e tornato al secolo divenne col tempouomo di cattedrauomo di Stato in Romadove coloro che lo avevano conosciutolaggiù continuarono a chiamarlo in segreto "padre Luigi".
Le emozioni del giorno avantiil bisogno di raccoglimentola stanchezzanonsvogliarono di visitar il paese intorno chi aveva sentimento dei luoghi e dellecose. Uscendo dalla parte occidentale molti andavano in poco tempo alle rovinedi Segestae vi si appressavano esaltandosi via via. Quelle trentasei colonnedel tempio dorico rimaste in piedi come parte di un'opera incompiutatantosembravano recenti; il teatro poco più in làispiravano una malinconiamagnanima. Era mai possibile che fosse stata abitata da gente così ricca egrandiosa da aver eretto quei monumentiuna terra ora popolata quasi solo dimiseri? Quelle colonne parevano vive e pensantiquel tempio pareva aver ancoraun'anima cui facesse dolore vedersi intorno caprai indifferentinei qualituttavia l'uomo antico doveva starsene addormentato. Ora quei visitatori silusingavano d'essere capitati a svegliarlo.

La marcia adAlcamoalto

Garibaldi non perdeva tempo: all'alba del 17 rimise la sua gente in cammino.
Da Calatafimi un'ultima occhiata d'addio al colle del Pianto Romanopoi via perAlcamo. E fu una marcia mattutina di poca fatica anche per quelli dei feritichesentendo di potersi reggerepiuttosto che starsene inoperosiavevanovoluto seguire la colonnachi col braccio al collochi con la testa bendatachi a piede nelle filechi su quei carri di laggiù storiati di Madonne e diSantiillustrati da sentenze e leggende paesane. Parlavano dei compagni rimastia Vita nella chiesa o nelle casedove mancavano di tutto e pativanoe qualcunostava forse per moriresebbene il vecchio Ripari e Ziliani e Boldrini e glialtri medici facessero prodigi d'amore.
Erano cose meste; eppure la campagna meravigliosa metteva nei cuori il propriorigoglioonde si sentivano senza troppi rimpianti. Ah che paese! Se queltrionfo di verde fosse venuto crescendo così come parevala via doveva menaredavvero alla terra promessa. Intanto qualche cosa di paradisiaco si vedeva già.La fama di Garibaldi era andata a rinnovare le fantasie già note altrove; ondeagli sbocchi delle stradicciole campestri che mettevano in quella viagruppi didonne dinanzi ai loro uomini e coi bimbi al collo o per manogli gridavano deisaluti quasi religiosi. Alcune si inginocchiavanoaltre dicevano "Beddi!"ai giovani soldati.
Via via andando si scoprivanotra le biade pestearnesi militari deiborbonici; e quei villici li additavano imprecando agli 'schifiosi' che liavevano gettati nella ritirata. Poigià nelle vicinanze di Alcamocomparverodelle carrozze di signori che venivano incontro a Garibalditirate da parigliesuperbe. A un certo punto comparve il mare del Golfo così azzurrosotto uncielo così tersoche tra per quella vista e la bella campagna e iltutt'insiemefu un'ora di incanto. In qualche gruppo della colonna scoppiaronocanti lombardidi quelli della regione dei laghi.
Quella era proprio la terra degna che vi fosse sbocciato uno dei primi fioridella nostra poesiaperché tutto ciò che vi si vedeva ricordava la 'Rosafresca aulentissima' di Ciullo o di Cielo. Allora la variante non importava. Epoi ecco Alcamo con le sue belle case e i suoi giardini coi muri passati daipalmiziche si spandevano fuori torpidi nel caldo meriggio. Non poteva essersidato che il delizioso 'Contrasto' fosse avvenuto davvero con di mezzo uno diquei muri o la siepe d'uno di quegli orti? Tutto vi pareva così antico!
La cittàquasi moresca d'aspettoquasi mestaera in festa religiosamapareva allegrarsi a poco a pocoper l'arrivo di quegli ospiti d'oltremare. Epoi si esaltò addirittura per un fatto quasi incredibiledi cui si parlava giàsin dal giorno avanti in Calatafimi come di cosa avvenuta o da avvenire.Garibaldi si era lasciato indurre da fra Pantaleo a ricevervi la benedizione inchiesa. Egli schiettamentesemplicementein mezzo al popolosi sottomise allaCroce che il frate gli impose sulla spallaproclamandolo guerriero mandato daDio. La scena fu un po' stranama il Generale stette con tanta sincerità dispiritoche neppure i più filosofanti della spedizione trovarono nulla aridire. Fu un lampo di misticismo sprigionato dall'anima di luiformata d'unpo' di tutte le anime grandi che furonoe anche di quella di Francescod'Assisidietro al qualenato nel suo tempoegli si sarebbe scalzato deiprimi a seguirlo.

A Partinicoalto

Fu dunque un giorno lieto quello d'Alcamo; ma l'altro appressoquando lacolonna partì acclamata e marciò a Partinicoqual diverso mondo le siapprestava a così breve distanza! Per Alcamo la milizia borbonica battuta aCalatafimi era passata senza che nessuno le si fosse fatto contro per impedirla;ma Partinico la aveva affrontatae per le vie e per le case era stato uncombattimento da selvaggi. A entrare in quella cittàparve di affacciarsi auno degli orrendi spettacoli di strage fra Greci e Turchi della rivoluzioneellenica di quarant'anni avanti.
Proprio sulle soglie della cittadettastavano mucchi di morti bruciacchiatienfiatiin cento modi straziati. E tenendosi per mano a catena e cantandovidanzavano attorno fanciulle scapigliate come furiecui faceva da quadro e dasfondo la via maestra nera d'incendi non ancora ben spenti. Le campane sonavanoa stormo; pretifratipopolo d'ogni cetourlavano gloria ai militi correntidietro a Garibaldiche traversò rapido la città col cappello calato sugliocchie andò a posarsi all'altro capoin un bosco d'olivimesto come non eraancor parso in quei giorni. E là gli furono condotti alcuni sodatucciborbonicirimasti prigionieri in mano dei Partinicotti e salvati a stento daqualche buono; poveri giovani disfatti dal terrore di due giorni passati con lamorte alla gola. Consegnati a lui si sentirono sicurie piansero e risero comefanciulli.
Sprazzo di sereno nella tempestachi si potrebbe tenere dal narrarlo! Garibaldisedeva in quel momento a pie' d'un olivo. Aveva appena finito di confortare queipoveri soldatiche gli fu presentato dal capitano Cenni suo carissimo uno deigiovani della spedizioneil quale portava una manata di fragole in uncanestrino fatto di foglie. "Generale" disse il Cenni"questocacciatore delle Alpi vi offre le fragole." Garibaldi guardò Cenniguardòil giovanepoi sorrise un pococrollò la sua bella testa e gli domandò:"Di dove siete?" - "Genovese" rispose il giovane quasitremando. E allora il Generale in dialetto genovese. "E avete ancora lamadre?" "Generale sì;" e gli occhi del giovane videro alloramolto lontano. "Cosa direbbe - continuò Garibaldi - se fosse qui a vedereche mi piglio le vostre fragole?" Ma intanto tese la mano e ne levò due otre per gradiresoggiungendo: "Andateandategodetevele voiche viparranno più buone che a me."
Dopo non lungo riposole Compagnie si rimisero in marciaallontanandosi quasicon gioia da quel luogo di sangue. Alcuni Partinicotti le seguirono armati didoppiette e di pugnali. Ve n'era uno che pareva di bronzotutto vestito divelluto biancastrocon a cintola due pistole. Il Sampieri dell'artiglieriadiceva che erano dell'aria di colui i Palicari e i Clefti dei quali eglinell'esilio suo in Greciane aveva conosciuti alcunivecchi ancora di quei diBozzaris. Si sarebbe detto che quell'uomo non fosse fatto che ad uccidereeinvece a parlargli era buono e anche grazioso. Raccontava quasi scusandosil'eccidio cui aveva partecipato; e diceva con poesia di Palermobellagrande:"Vedretevedrete! Il palazzo reale!" E forse tutto il suopatriottismo era per l'isola suapel regnopel piccolo regno di Siciliaindipendente da tutto il mondo. Seguì la marcia di Garibaldi senza piùstaccarsidivenne amico di qualcuno in tutte le Compagnieportava la letiziain tutti i crocchi e le buone promesse. Nove giorni di poiil mattino del 27nell'assalto di Palermofu visto l'ultima voltasotto il Pontedell'Ammiragliodisteso morto presso un Cacciatore borbonicoche moribondoegli stesso lo guardava. Forse lo aveva ucciso lui.

Al Passo di Rendaalto

Sul vespro di quel giorno la colonna garibaldina entrò nell'ombra di unanfiteatro di montidove si immerse quasi a celarsi. In quell'oratutto làintorno pareva minacciosodalle falde ronchiose ai profili di quei montidentati in alto e taglienti. Il po' di piano traversato dalla strada consolaredava un senso di freddo. E il luogoal dire dei Sicilianiera infame peristorie truci di masnadieri. Passo di Renda voleva dire pericolo di non uscirnevivo chi vi si avventurasse da solo.
Le Compagnierifinite dalla stanchezza e dalla famesi gettarono in terraciascunaper dir cosìdove fu fermata; e per un po' fu silenzio profondo. Mapoi qua e là furono accesi dei fuochi con gli arbusti raccolti per quelle ripee intorno ai fuochi quei militi si misero come al solito a sgranocchiare il loropane. Da otto giorni non si cibavano quasi d'altro che di pane e cacio come ilGeneralesemplice uomo che faceva divenir semplici tutti e senza vogliesenzabisogni.
Quella sera si mise a dormire in un cantuccio di quell'accampamentotra corterocce ferrignedove i più novelli tra i suoi andavano timidamente a passarglivicino per guardarlo. Ma era veramente Garibaldi quell'uomo coricato su quellapovera copertasotto quel mantellocon la sella del suo cavallo per origliere?Ed era Dittatoree voleva levar via dal trono il Re delle Due Sicilieegli cosìpovero e che riposava così tranquillosenza guardie né nulla? Pareva unsogno. Contemplatolo un pocoquei giovinetti se ne tornavano alle Compagnieadire che egli dormiva e che perciò tutto doveva andar bene. Ma tutti sentivanodi trovarsi a una breve camminata da Palermoda dove un generale un po' arditoavrebbe potuto condurre una colonna a sorprenderli; e guai se anche un'altracolonna mandata a sbarcare a Castellamareper Alcamo e Partinicoper la viastessa che essi avevano fattafosse giunta alle loro spalle.
Invece quella notte passò quietasenz'altra noia che d'un po' di pioggia. maall'albache bella sveglia! Da un'altura di quell'anfiteatro scese sul campoimprovviso un suon di bandache parve venuta dall'infinito a far una melodianotama tal quale come laggiù non gustata mai da nessuno in nessun teatro delmondoe nemmeno in cuore dal Verdiche l'aveva creata. Era il suo bolero dei'Vespri Siciliani'. Benedetto lui! L'anima sua tornava a soffiare l'entusiasmoin quei cuoriin quel luogocome già sul mare da Quarto a Marsala coi cantidei 'Masnadieri'col coro del 'Nabucco' "Va' pensiero sull'alidorate." Una voce di tenore limpida e potente s'accordò subito ai suoniadattandovi i bei versi del 'Giovanni da Procida' del Niccolini "LeSiciliane Vergini" e qualche parte del campo applaudiva.
Ripetuta tre o quattro voltequell'aria dei 'Vespri' mise una grandeagitazione. E non era più lo scoppio di gioia idillica d'Elenache nelmelodramma scende dalla scalea incontro al coro di fanciulleche le portanofiori; ma passava come un vento eroico di martirioche invitasse amici e nemicia morir insieme per la pace del mondo.
Il piccolo esercito si levò tutto; e allora fu un andare verso un punto dove lastrada consolare mette da quell'orrido passo alla vista della Conca d'Oro. Tuttisi fermavano là incantati. Vedevano giù in basso quel paradiso; e in fondoPalermo che pareva infinita; e nel tremolare della marina un fitto di antennenavi da guerra certo le piùnavi di tutta Europa e forse d'Americacorse làper vedervi la gran scena che vi doveva avvenire. Di quella scena essi dovevanoessere poi attori! Ma quandocomecon quali sorti? Sapevano che laggiù traquelle mura stavano ventimila soldatima insomma v'erano pure dugentomilacittadini. E alcuniquasi col sentimento dei diecimila di Senofonte quandoscopersero il maregridavano: PalermoPalermo!
Di làil vecchio Ignazio Calona mostrava gli sbocchi dei monti da dove eranodiscesi i Napolitani di Florestano Pepe e di Filangerinel 1820 e nel 1849. Aquelle due rivoluzioni egli aveva partecipato di venticinque anni e dicinquantatrée si poteva immaginare con qual animo se tanto glie ne avanzavaadessoche ne aveva sessantacinque. E diceva con foco giovanile che nel maggiodel 1849quando Palermo si preparava all'ultimo sforzo per respingere Filangerigià vincitore del resto dell'isolalaggiù nella pianura che si vedeva tra lacittà e il Monte Grifoneogni giorno accorreva gente d'ogni ceto a scavarfossatiad alzar riparie che tutti lavoravano insieme signori e plebeanchele dame e le più nobili fanciulle. A quei discorsi i giovani si esaltavano.
Così per tutta la mattinata fu una grande vivezza nell'accampamentodove queimiliti si facevano giocondamente ognuno da sé le più umili cose; si lavavanole camicie a una gran cisternasi rattoppavano le scarpesi ricucivano glistrappi dei panni così mal ridottiche coloro che avevano indosso i piùsignorili parevano ormai i peggio vestiti. Ma alle belle personeal portamentoelegantequella miseria dava quasi maggior risalto. Altri davano una ripulitaai fucili o si ingegnavano di raccomodarne i guasti. I cannonieri stavanointorno ai loro pezzi. Appoggiato alla gran colubrinaAntonio Pievani daSondrio leggeva il Vangeloe lo spiegava ad alcuni che aveva intorno. Tuttiascoltavano raccolti e pensosie facevano venire in mente i Puritani diCromwell. Passava qualche scetticostava un istantepoi se n'andava compresodi rispetto per quel soldato credente.
Ma in un canto dell'accampamento v'era qualcuno cheper dir cosìteneva ilposto che nei poemi cavallereschi hanno le Orche e i mostri. Sdraiato in terralegato mani e piedivestito alla siciliana con certa eleganzacustodito daalcuni 'Picciotti' delle squadre del barone Sant'Annastava un uomo grande efortedi viso cattivo. Guardava sprezzante e taceva. I garibaldini che andavanoa vederlosentivano dire che egli era un tal Santo Meleil quale sin dalloscoppio della rivoluzione aveva principiato a correre la campagna con alcuniribaldirubando le casse pubbliche e assassinando gente. Aveva fino incendiatoil villaggio di Calamina. E tutto aveva fatto in nome di certa sua giustizia chegli pareva d'aver diritto d'esercitare; anzise ne gloriava. I Siciliani chedall'esiglio erano tornati nell'isola con Garibaldidicevano che colui dovevaessere 'Maffioso'; e spiegavano ai compagni la natura d'una tenebrosa societàche aveva le sue fila per tutta l'isolain altoin bassonelle cittànellecampagnedappertutto. Piace rammentare che i continentali scusavano l'isolanarrando che anche da loro vi erano state compagnie di malfattori che avevanoesercitato una giustizia di loro geniofavoriti dalle plebi delle campagne eanche dai ricchi delle cittàquando le leggi parevano torte contro lagiustizia vera; e dicevano che quelli erano passati e che sarebbe passata anchela 'Maffia'.
Quel Santo Mele il giorno appresso sparì. Forse la 'Maffia' potentissima gliaveva dato aiuto fino in quell'accampamento.
Noiosissima cosanel pomeriggio di quel giorno cominciò a piovere. Senzatendesenza coperte era un gran brutto stare; ma il campo non si attristò perquesto; anzivi fu un momento di gaiezza fin troppa. Era stato macellato ungran bove donato da un Comune là pressoe in certi pentoloni mandati pure daquel Comunecuochi improvvisati cuocevano di quel bove a pezzie del riso. Maquando si fu sul punto di scodellaree tutti si sentivano già quasi nellostomaco quel ristoros'accorsero di non avere né gamelle né cucchiaie unarisata generale empì l'aria di chiasso. Però vi fu l'ingegnoso che si prese laparte sua di riso in una foglia di fico d'Indiae allora tutti ai fichie nelcavo di quelle foglie coriacee un po' di quel cibo poterono gustarlo tutti.Quanto a vino ce n'era nel campo a botti.
Seguitò la pioggia tutto il resto del giorno e anche quella nottesicché ladimane quella gentefradicia fino alla pellefaceva un brutto vedere.Garibaldi guardava mesto. Egli nella notte aveva fatto levar via una specie dibaldacchino che alcuni di quei suoi militi gli avevano formato sopra con deimantelli sostenuti da palimentre dormiva. Ma alfine anche quel giorno venne ilsolee ognuno tornò a sentirsi bene.
Intanto Garibaldi aveva meditato una mossa. Voleva piantar nella mente deidifensori di Palermo che egli avesse deliberato di assalirli da Renda per la viadi Monrealee creare in essi l'illusione che egli potesse scendere a farsipigliare come in una trappola su quella via. Così la sera del 20messo inmarcia il battaglione Carinilo fece calare nel villaggio di Pioppoa pie' deimonti e già sul lembo della Conca d'oro. Ivi tenne quelle Compagnie tutta lanotte. All'alba del 21 si spinse avanti egli stesso dove erano già iCarabinieri genovesicon le compagnie del battaglione Bixio passate anch'essedurante la notte. Quasi subito l'avanguardia venne alle schioppettate con gliavamposti napolitanimentre che a sinistrasu pei fianchi dei montisisvolgeva una loro alacerto per aggirare la gente garibaldinacalarle addossoe metterla in rotta tra gli aranceti del piano.
Quel mattino i napolitani parevano di buon umore. Ma la loro ala girantes'abbatté nelle squadre di Rosolino Piloche stava a mezza costae dovettearrestarsi. Allora s'impegnò lassù un fuoco vivissimo di fucileriaa cui lesquadre ressero bravamenteper più di due orefinché i borbonici furonocostretti a ritirarsi. E giù nel piano le Compagnie garibaldinemenate avantiindietro e poi ancora avanti per modo che esse stesse non ci capivano piùnullaverso il mezzodì ricevettero l'ordine di ritirarsi. Videro Garibalditornar dalla fronte col suo Stato maggiore in sì gran frettache avrebberopotuto credere di doversi sentir dietro i compagni dell'avanguardia fuggenti; mabastò loro guardar in faccia il Generalee la breve ritirata di ritorno alPasso di Renda fu fatta con calma. Risalite lassù trovarono sul ciglio delpasso i cannoni in posizione con le gole chinate verso la pianuradovevolgendosi a guardarlavedevano brillar non lontano le armi dei nemici distesi.Forse questi si apparecchiavano a farsi avanti. E allora pareva di capire cheGaribaldi avesse mirato a tirar fuori di Palermo una parte di difensori perpiombarle addossoe se la fortuna lo secondasseromperlied entrare con essiin Palermoche sarebbe insorta.
Invece seguì una gran quiete. Ma in quella quiete si sparse una notiziadolorosa. Rosolino Piloche su quei colli di San Martinocon le sue squadreaveva così ben rintuzzato l'attacco dei regiiera stato colpito al capo da unapalla di rimbalzomentre scriveva un biglietto a Garibaldi. Ed era mortopovero prodecon in vista la sua Palermo laggiùsospirata dall'esilio perundici anni. Alla testa delle sue squadre rimaneva l'amico suo Corraouomo digran coraggio ma incolto e di poco prestigio; e così con la gran figura di Piloveniva a mancare una delle forze più vive della rivoluzione. Perciò si diffuseuna gran mestiziaGaribaldi fu visto afflittissimo; e facilmente il pensierode' suoi passava da Pilo a luiche da una palla poteva essere spento da un'oraall'altra.
E allora?

Marcia notturnaalto

Venne intanto la serauna sera cupa che minacciava una notte di pioggia.Eppure le Compagnie furono fatte mettere sotto le armi e in marciadi nuovocome il giorno avanti sulla via per discendere a Pioppo. Dunque Garibaldi siostinava davvero a tentar Palermo da quella parte e con un attacco notturno?Fosse pure! Gli animi erano ben dispostiperché quello stare con la gran cittàalle viste e con le spalle mal sicure cominciava a diventar fastidioso. Emarciarono. Ma là dove la via chinavadove sul mezzodì avevano visto icannoni in batteriai cannoni non c'erano piùe le Compagnie invece discenderesi videro fatte girar a destra per entrare in un sentiero che nonpoteva menare se non sulle creste di certi montidei quali nei due giornipassati nel campo di Renda avevano potuto considerare l'asprezza. All'imbocco diquel sentierosoldato per soldato ricevevano tre pani da alcuni uominicheagli ordini del capitano Bovibolognesefacevano fretta ai passanti chepigliassero e andassero. Quei tre pani volevano dire tre giorni forse di marciaper le montagne. Erano dunque preziosi; onde i più dei soldati non sapendo dovese li mettereinastate le baionette ve li infilzavanoe tiravano via colfucile in spalla sbilanciato a quel modoceliando. Ma come fu notte chiusa e ilsentiero venne a mutarsi in sterpetosi fecero alquanto tristi. Sennonché a uncerto punto trovarono Garibaldi che tribolava a mandare avanti dei contadiniiquali curvi sotto lunghe stanghe portavano a spalle appesi a quelle i cannonismontatidieci o dodici per ciascun pezzo. E li esortavae li metteva sulgioco di moversi ognuno con tutte le sue forzeli aiutava persinoe perinsegnar loro come dovevano stare sotto la stanga ci si metteva egli stesso. Inquel mestiere lo secondavano il Castigliail Rossiil Burattinii marinai delLombardo e del Piemontegià sin da Salemi formati in una piccola Compagnia.
Con quell'esempio la colonna sfilavaun uomo dietro l'altro oramaiché perdue non c'era più luogo. E cominciò una pioggerella che presto divenne fittatra quelle tenebredando alla gente il senso di camminare nelle nubi. Ah lebelle vie di Milanodi Veneziadi Genovatutte inondate di lucea quell'ora!I paniinzuppandosicascavano giù dalle baionettecascava qualche uomo aogni passo; tuttavia si rideva ancoramaper dir cosìd'un malinconico risointeriore. Metteva un po' di sgomento il non veder più nullasalvo dei granfuochi indietro nel campo di Renda abbandonatoe un altro gran fuoco solitarioavantilontanoverso il quale si accorgevano di marciare; mentre dal fondosulla sinistrasalivano a intervalli i gridi d'allerta delle sentinellenapolitane. Dalla testa della colonna veniva il nitrito d'un cavalloinsistenteselvaggio. A un tratto s'udirono due colpi di fuoco. Fu un fremitoper tutta quella sfilata: forse l'avanguardia s'era imbattuta nel nemico. Ma poinon si udì più nulla. E sempre tirando avantipassò la voce che quei colpierano stati scaricati da Bixio nella testa del suo cavalloper farlo smetter dinitrire; atto proprio da Bixio che aveva voluto far quella marcia del diavolo insella. Era vero. Andando avantii soldati passavano vicino a un cavallospianato là morto fuori de' piedi.
Quando fu quasi l'albale Compagnie si trovarono a calare dalle ultime falde diquei monti su d'una grossa borgata. Pioveva ancora. Credevano d'aver camminatolontanoe invece la Conca d'oro era ancora lì davanti ad essi come quandostavano a Rendasolo che adesso la vedevano da oriente. Mirabile marcia!Garibaldi che per natura si ricordava così poco delle cose fatteebbe ragionequandoriparlandone dopo molti annidisse che neppure in America si eratrovato a farne fare una a' suoisomigliante a quella del Parco. E non un uomosi era perduto; qualche ritardatario aveva saputo serrarsi presto alla colonna;anche i cannoni erano venuti per quelle balze.
Ma in quale statopovera gente! Il borgo di Parco sia lodato sempre pel modocome la accolse. Non ci fu casa che non si aprisse a ristorare qualcunoarasciugare i pannia rifornirne che non poteva più tener indosso i propriridotti in cencia rincalzare chi non aveva più scarpe in piede. Ma ancora piùda lodarsi quel borgoperché si prese in seno tutta quella gentee se latenne celata tutto quel giorno e la notte appressosenza che nulla netrapelasse ai borbonicicampeggianti nella Conca d'oro.

Un frate stranoalto

Cotesto giornouno di quei soldati fu fermato da un giovane monaco che egliavea già veduto girare pel borgoe soffermarsi qua e là a parlare coi suoicompagni. E capì subito che era un'anima tormentata da qualche gran cruccio.Avviato il discorsoil monaco si spiegò: avrebbe voluto gettarsi nellarivoluzionema qualcosa lo tratteneva. Seduti a pie' d'una delle tre grandicroci che sorgevano su d'un poggio a figurarvi il Calvario; quei due parlavanogià come vecchi amici. E il garibaldino diceva al frate che se avesse volutoentrare nella sua Compagniavi avrebbe trovato il Comandante e gli ufficiali emolti militi siciliani tornati dall'esilio; e che l'esser frate non voleva dire;che già altri frati avevano combattuto per Garibaldi a Calatafimi e che anziun francescano lo seguiva già da Salemi. Il monaco rispondeva che pur ammirandoGaribaldi gli pareva che quella ch'egli combatteva non fosse la guerra di cui laSicilia aveva bisogno. L'unità d'Italia e la libertà pel vero popolo sicilianoerano quasi nulla. Che potevano farsene quelle plebi ancora oppresse da tutte leingiustiziealtrovein Piemontein Lombardialevate da un secolo? Nonavevano visto essi venuti da fuoriper quel poco che avevano già corsodell'isolaquanta era la miseria e quanta l'abiezione di quelle plebi? Lalibertà non era pane per lo stomaco e nemmeno per lo spirito; anzi sarebbe poiper i già prepotenti un mezzo per opprimere di più. In Sicilia era necessariauna guerra che trasformasse la società e la vitafacendo guadagnare al popoloil tempo che per forza gli era stato fatto perdere. Non vedeva Garibaldi che laSicilia era ancora quasi come doveva essere stata ai tempi delle guerre servilidi venti secoli avanti? Insomma quel monaco voleva la guerra non soltanto controi Borbonima contro tutti gli oppressori grandi e piccoliche si trovavanolaggiù dappertutto.
Il garibaldino cui pareva di non capir quasi come un monaco parlasse a quelmodogli diceva che allora quella guerra ch'egli voleva avrebbe dovuto esserfatta anche contro i frati ricchissimie molti. E il monaco ardente rispondevache sìche anche contro i frati si doveva farlacontro di essi prima checontro d'ogni altroma col Vangelo in mano e con la Croce: che allora anch'eglici si sarebbe messoma che così come era fatta e per quel che era fattaglipareva inutile. Se Garibaldi avesse guardato benesi sarebbe accorto che leplebi lo lasciavano solo coi suoi.
Allora il garibaldino accennò alle squadre che numerose tenevano i monti qua elà. - E chi vi dice - esclamò il monaco con voce risoluta - chi vi dice chenon si aspettino qualche cosa di più? -
Il discorso era stringente. Il garibaldino che non si voleva dar vintosentivatuttavia che il monaco ne sapeva più di lui. Mirava quel volto illuminato dauna fiamma che non era la sua di mazzinianotaceva un po' confuso e anchealquanto impicciolito. Poi egli e il monaco si levarono di làsiabbracciaronoe questi se n'andò. Egli discese tra i suoi con l'animo turbatoe scontento. Gli pareva d'aver imparato molto in quel colloquioe vagamentesentiva che l'unità della patria non era tuttoche la libertà avrebbescoperto molte piaghealle quali poi col tempo altri avrebbe dovuto pensare. Ese ne ricordò e pensò a quel monaco trent'anni dipoiquando proprio da quellaparte dell'isola parlò più alto l'antico dolore che quegli sin da quel temporemoto sentiva.

Iborbonici all'offensivaalto

Tornando ai fatti allora presentii borbonici si erano svegliati la mattinadel 25 maggiocerti di avere ancora in faccia Garibaldi su al passo di Rendadove tutta la notte erano stati tenuti accesi dei grandi fuochi. Ma alloschiarirsi s'accorsero che egli non era più là. Dove mai poteva essere andato?Forse la prima supposizione fu ch'egli si fosse ritirato indietro. Non passòloro neppur per la mente che avesse fatto quella marcia inverosimile per andarsia porre sul loro fianco in quel nascondiglio di Parco. E non ne seppero nullatutto quel giornoperché la Sicilia non dava spienon ne seppero fino almattino appressoquando videro coronarsi d'armati il poggio che sorge sopraquel borgo. Certo là era lui; quelle che si vedevano non potevano esseresquadre. E deliberarono di andare a trovarlo.
Il dì stesso sul vespro mosseroe parve per assalire Garibaldi in due colonnea tenaglia. Ma non era che un movimento per saggiarlo o forse per tirarselo giùnel piano. Egli aveva scelta bene la sua posizione; piantato Bixio a mezza costacol suo battaglioneil battaglione Carini aveva schierato lungo la strada chesale per quel dosso ed entra poi tra i monti verso Piana de' Greci. I cannonierano in batteria. Tutto era pronto per ricevere i borbonici. Ma la loro alasinistra si avanzò appena a tiro di fucilee scambiò qualche colpo con alcuni'Picciotti' che stavano sulle più basse faldel'altra non si inoltrò neppurtanto. Erano dunque soltanto ricognizionima volevano dire che per l'indomanisi preparava qualche cosa di grosso.
E avvenne.
Alla levata del soleun gran tratto della via da Palermo a Monreale fu vistodal Campo di Garibaldi sfavillar tutto d'armi. Pareva che i ventimila uomini delpresidio fossero usciti tutti alla campagnatanto era lunga quella traccialacui testa entrò nei fitti pomari e continuò a marciarvi nascostacomes'indovinava dall'accorciarsi delle sue code.
Garibaldifermo nelle sue posizionifaceva lavorar di zappa il suo Genio e lasua Artiglieriacome se si preparasse a ricevere l'assalto. Aveva già mandatii Carabinieri genovesi alla postalà dove il primo incontro degli assalitoridoveva naturalmente seguirecerto che contro le loro carabine il nemico sisarebbe sentito cader la baldanza. Antonio Mosto doveva pensare a reggerviquanto fosse possibile a brava gente qual era la suae alla fine ritirarsi lavia che tutta la Colonna avrebbe pigliataperché Garibaldicontro ogniapparenza data da principio alle proprie intenzioniaveva deliberato un'altravolta la ritirataquasi la fuga. Infattiquando i primi colpi dei Carabinierigenovesi annunziarono che la colonna nemica attaccavaegli mise le sueCompagnie in marcia con l'artiglieria già avviata; passò egli stesso avanti acavallodisse qualche parola d'incoraggiamentoe un po' di gran passo e un po'di corsain una stretta lunga parecchie migliala marcia fu gagliardamentecondotta.
Va' e va'anche quella volta le Compagnie furono messe a una dura provaperchéquando trafelate giunsero a veder la Piana de' Grecie idealmente già vi siriposavanocon quel sentimento che devono avere sin gli uccelli migratori dioltremare all'apparire della terra; ecco le Guide a sbarrar loro la via eadditare la salita a un monte. Uno sgomento! Ma lassù era già il Generaledilassù chiamavano con alte grida ben note i più rotti alle fatiche; bisognavaraggiungerli perché il nemico tentava di precederli alla Piana de' Grecivarcando quel monte. Chi non era addirittura spossato ubbidiva.
Veramente il Comandante nemico che aveva ideato quel movimentosi era ingannatosulla possibilità d'eseguirlodata la mobilità delle compagnie garibaldine.Contro altra gente forse gli sarebbe riuscito. Ma esso non aveva ancorguadagnata la primae già Garibaldi gli appariva sulla seconda delle cime checredeva di aver tempo a varcareavanti che i garibaldini avessero percorso lavia da Parco alla Piana. Così non ci fu che uno scambio di fucilate lassù dagola a gola; poi i borbonici se ne tornarono indietro giù pel versante versoParco; Garibaldiridisceso dalla parte suaandò a occupare la Piana de'Greci.
Si chiama così la città degli Albanesiadagiata in mezzo a una campagnagrigiagrigia essa stessa e tetti e muri e tutto. Almeno aveva tale aspettoquel giornovista traverso l'aria infiammata del mezzodìche tremolava comeuna sottilissima rete di fil d'argentosì che uno avrebbe detto di poterlapalpare solo a far quattro passi avanti. Oh che sole! Che refrigerio sarebbestato sdraiarsi appena giunti tra quelle case! Ma la gente della città fuggiva.Cosa le avevano fatto credere di quei forestieridi quel Garibaldi di cui anchei pretii frati e le monache dicevano bene? Sapeva quella gente che igaribaldini avevano i borbonici alle spallee temeva che in quella sua cittàvolessero far fronte al nemico e aspettarlo a battaglia? Certo non era cosa chedovesse incuorarla a stare. Il fatto è che fuggiva. Ed era proprio il 24maggiogiorno che per costume di secoli gli Albanesi della Piana salgono alMonte delle Rosea cantarvi con le fronti volte a orienteverso l'anticapatrialamentose parole nella loro antichissima lingua.

O bella Morea
Da che ti lasciai non ti vidi più!
Quivi trovasi mio padre
Quivi la madre mia
Quivi i miei fratelli sepolti ho lasciati.
O bella Morea
Da che ti lasciai non ti vidi più.

Quella dataquell'ascesaquel canto ricordavano loro i dolori degli avi tresecoli e mezzo indietroche per non soggiacere ai Turchi s'erano rassegnati alasciar l'Albaniae col fior degli Epiroti condotti da Giorgio Scanderbergavevano trovato rifugio in Siciliaportando seco loro le immagini e quantopossedevano di più caro. Fiera e costumata genteorgogliosa della sua origineche ne' suoi canti serba vivo il sentimento di quattro secolie sogna ancorache uno del suo sangue possaquando che siaricondurla nella vecchia patrialontana.
Si può dire che i Garibaldini videro appena gli abitanti della cittàperchéaccampati fuoristettero stanchiinquieti e pensosi d'altro. Sapevano che daun'ora all'altra il nemico che li seguiva sarebbe apparso. I Carabinierigenovesi chesostenuto il primo assalto al Parcos'erano ripiegati sullacolonnaraccontavano che i borbonici erano almeno cinque milamercenaribavaresi la più partecon artiglieria e cavalleria. E lamentavano di averperduto nello scontro Carlo Mosto e Francesco Rivaltaai quali forse queiferoci non avevano dato quartiere. Tutti dunque erano pensosi. Che cosameditasse il Generale lo ignoravano; se quella fosse una manovra o una veraritiratanessuno poteva dirlo. Garibaldi ne scrisse poiriconoscendo eglistesso che quel giorno poteva essergli funestose avesse avuto da fare con unnemico più diligente.
Verso serale Compagnie furono rimesse in marciae ancora quasi con aria diritirarsi in fretta. L'artiglieria e i pochi carri erano già stati incamminativerso Corleonescortati da poche dozzine di quei milititra i quali i non benguariti di Calatafimi. L'Orsini comandante dell'artiglieria aveva ricevutol'ordine di andareandar sempre; e la colonna gli si mise dietro persuasa cheomai di Palermo non si sarebbe più parlatose pure non c'era da dubitare chetutto dovesse finire con quanto già s'era sentito sussurrare due voltecioèche Garibaldi avrebbe sciolta la spedizionelasciando a ciascuno la cura dimettersi in salvo da sé. L'ora correva triste.
Ma dopo aver marciato un pezzo e fatta nottela Colonna fu menata fuor dellavia Consolare a piantarsi in un boscodove accampò. Il luogo era selvaggio. Eordine fu dato di non parlaredi non accender fuoco neppure per fumaredisdraiarsi ognuno nel posto ove si trovava senza più moversi per nulla.
Si discusse molto per trovare se tutte le cose che Garibaldi aveva fatto nei duegiorni avanti a quelloe ciò che fece nei due dipoisiano state fasid'esecuzione d'un suo concetto svolto con intenzioni ben determinate; o se tuttauna sequela di fattinon legati tra loro da verun concettoe venuti quasifortuiti ora per oral'abbiano condotto al resultato glorioso d'entrar inPalermonel modoper dir cosìfavoloso con cui v'entrò. E cosìsoltanto adiscuterlosi disconobbe tutto il suo studio di quei giorniche fu di trar daPalermo una parte del grosso presidio; illuder questocreandogli l'opinioned'aver costretto lui a rifugiarsi co' suoi lontano; illudere il Comando supremodella capitalefarlo sicuro ch'egli non tornerebbetanto che vigilasse meno esi lasciasse sorprendere. Certo nell'esecuzione di quel suo disegno vi furonodei momenti ne' quali poté parere il disegno stesso non fosse ben fermonéGaribaldi lo contesterebbe. Ma poiche contestare quando si sa come eglipensava e sentiva? La guerra non la faceva per gustoe non era per lui néscienza né arte. Si trovava al mondo in queste nostre etàin cui essa èancora uno dei mezzi per far trionfar la giustiziae la faceva senza cercarvi négloria né altro. Anzi ne dimenticava i fatti appena li aveva compiuti. Non èforse vero che quandoper esempioscrisse di Calatafimiche pur egli stimavauno de' suoi più bei fatti d'armine scrisse quasi come uno che non vi fossestato presentee non avesse mai visto neppure quel campo? Nei tempi cheverrannotale noncuranza sarà forse il titolo più alto per la sua gloria digeneralecui nessuno preparava i mezzi di guerrache tutto doveva improvvisareed eseguiresolo con l'aiuto d'uomini devoti a lui come a un'idea; e colsentimento del benee con la fede in qualche cosa di superiore da cui sicredeva assistitoandava avanti vincitore semprealmeno moralmente anchequando era vinto.
In quel boscola forza misteriosa superiore da cui gli pareva d'essereassistitogli si rivelò nello splendore d'Arturola bella stella che egli sinda giovane marinaio aveva scelta per sua. Lo udirono i suoi intimi rassicurarsiin quello splendore. Ciò almeno fu detto e creduto per tutto il campodovesottovoce si diceva che il Generale era lieto perché Arturo appariva fulgido piùche mai.
E se era n'aveva cagione. In quella nottepoco distante dal boscoper la viaconsolare di Corleoneil nemico marciava sicuro di andare dietro di lui rotto ein fugae mandava a Palermo la notiziae la notizia andava a Napolie Napolidiceva al mondo un'altra bugia così: "Le regie truppe riportarono unasegnalata vittoria. Garibaldi battuto una seconda volta al Parcoperduto uncannone e sconfitto a Piana de' Grecifuggiva inseguito dalla milizia versoCorleone. Gravi dissensi tra i ribelli."
Invece quelle milizie non avevano battuto nessunonon preso cannoninéinseguivano lui ma la sua artiglieriadi cui in quella manovra aveva saputodisfarsi; e lui si lasciava alle spalle coi suoipiù d'accordo che mai coiribelli sicilianie prossimi a far con essi la congiunzione.
Infatti all'albaegli salì da quel bosco a Marineoe vi si trattenne finoalla sera; poi marciò a Missilmeridovecome gli annunziava un messaggio delgenerale La Masalo aspettavano quattromila isolani che questi aveva raccoltiper lui.
Certo la posizione in cui Garibaldi s'era posto con quella mossa erapericolosissima. Bastava che una spia ne avvisasse il Comandante della colonnanemica da lui così ben elusaperché essa tornasse indietro a schiacciarlosotto Palermo. Tanto era ciò facileche nella marcia di notteda Marineo aMissilmeriin un momento di sosta fu quasi da tutti creduto di averla addosso.E allora? Il senso della lor condizione era in tutti profondo. Ma non fu nulla.Ben prestoripresa la marciaapparve non lontano una gran luminaria. EraMissilmeri che li invitava.
Vi giunsero verso la mezzanotte e vi si posarono. Quanto erano tornati vicini aPalermo? La gente di Missilmeri diceva loro che dopo una piccola marciasubitosalito il monte a ridosso del paesel'avrebbero veduta.
E la rividero il giorno appressoda quel monte di Gibilrossa. Di lassùguardando a sinistra potevano anche scoprire quasi tutte le terre che avevanopercorse. Oltre certi monti lontani doveva trovarsi Calatafimi. Come vi stavanoi cari feriti gravidei quali non avevano più risaputo nulla? E quanti vierano morti?

Gibilrossaalto

Su quella sorta d'altopianose si può chiamar così la cima di Gibilrossaformicolava il campo dei 'Picciotti' di La Masache vi facevano un sussurrocome nelle selve il vento. Erano forse quattromilama pochi gli armati almenodi fucili da caccia. Tuttavia davano da sperare cheavventati a tempoopportunoanche gli armati soltanto di picche avrebbero fatto da bravi. Avevadetto Garibaldi che ogni arma era buonapurché impugnata da un valoroso.
I continentali si frammischiavano a quelle squadrea farsi descrivere nellebelle e immaginose parlate sicule le parti dell'isola da cui erano venuti. Eosservavano che anche i più rozzi di quei 'Picciotti' avevano pensieri esentimenti elevatie che riusciva loro d'esprimerli quasi con eloquenza. Ispidiall'aspettoerano squisiti dentro come certi frutti maturati ai loro lunghisoli. Ma anche pareva che alcuni di essi parlassero dialetti che sapevano dilombardo e di monferrino! E di ciò si maravigliavano appunto i lombarditra iquali Telesforo Cattoni del Mantovanoangelico giovane a ventun'anni giàdottore in legge e studioso di letterecui l'ingegno lampeggiava negli occhi.Ma Domenico Maura calabresedottissimo uomo sulla cinquantinache sempre traquei giovani parlava di Dantediceva che se la fortuna avesse secondatoGaribaldiessi avrebbero poi trovato da maravigliarsi anche in Calabriasentendo in certi villaggi parlar piemontese dai discendenti dei Valdesiscampati dalle persecuzioni. Quelli che lì in Sicilia avevano del lombardo edel monferrinoerano discendenti d'avventurieri e di favoriti tirati nell'isoladal gran Conte Ruggeroquando vi condusse sposa Adelaide di Monferrato. Dietroquella gentildonna uscita dal paese più cavalleresco d'Italiaerano corsi afrotte nell'isola gentiluomini d'ogni gradoe Ruggero aveva dato loro daabitare certi luoghiche per il numero grande di quegli ospiti furono poichiamati villaggi lombardi. E coloro vi si erano misti e fusi coi nativigreciarabi e normannipur conservando le loro consuetudini e i loro dialetti. AidonePiazzaNicosiaaltre cittadette erano di quei luoghi.
Nel pomeriggio di quel giornoapparvero lassù alcuni uomini di mare in calzonibianchie si disse subito che erano ufficiali delle navi inglesi ancorate nelporto di Palermosaliti per vaghezza a visitare quell'accampamento. Sapevanoessi che v'avrebbero trovato Garibaldi? E se lo sapevanopoteva ignorarlo ilComandante generale borbonico di Palermo? Ciò dava dell'inquietudine. Essiintanto recavano che nella gran città tutti erano persuasi della fuga diGaribaldiche anzi questo si leggeva stampato sulle cantonateche l'ufficialitàdel presidio esultavama che n'era addolorato e sgomento il popolocui lasbirraglia raddoppiava gli insulti. Diedero per primi anche la notizia che ilgoverno di Napoli aveva chiamato 'filibustieri' Garibaldi e i suoi appenapartiti da Quartodenunciandoli al mondo come pirati; e il nome di'filibustieri' fu subito preso per titolo di vanto da quei giovanicome daaltri in altri tempi altri nomi vituperosi. Aggirandosi nell'accampamentoquegli Inglesi si dilettavano di schizzare i profili dei più pittoreschi traquei Garibaldini; si facevano scrivere nei loro taccuini i nomi di questo e diquellodavano delle strette di mano che parevano strappi; insomma sembravano infestae si facevano promettere una visita sulle loro navi.
Ma i politicie tra quei militi ve n'erano moltimormoravano. Ah gli Inglesi?Sempre dove avevano toccato avevano lasciato l'ipoteca o fatto mercato. Berchetli aveva ben giudicati ne' suoi 'Profughi di Praga'! Essi forse agognavano chein Sicilia si versasse tanto sangue che non fosse più possibile nessuna pacecoi Napolitani: e poi d'accordo con Napoleone si sarebbero presa l'isolalasciando libero lui di farsi dar la Sardegna da Vittorio Emanuelee questo didargliela. Napoli con le sue provincie continentali sarebbe rimasto ai Borboni.E così salvi questisalvato al Papa il resto del regnol'Austria si sarebbebaciate le mani di veder questi contenti e di tenersi il Veneto; la Russiacontentissimaavrebbe applaudito; e l'unità d'Italiaaddio!
Queste cose si dicevano a Gibilrossa dai mazziniani specialmente; e di quelliche le ascoltavano chi le credeva già quasi belle fatte; chi ci si arrabbiava adiscuterlea negarlee chi crollava le spalleridendo. A buon contose eravero qualcosa d'altro che già si sussurravaquegli Inglesi avevano portato aGaribaldi i piani delle fortificazioni di Palermo e dei posti occupati dalnemico alle porte. Questo era bene sapereperché il tempo incalzavasiavvicinava qualche grand'orae con quella tal colonna andata dietro all'Orsinie che poteva da un'ora all'altra apparire alle spallebisognava far presto.

*

Potevano essere le sedici all'italiana anticacome si contavano le ore laggiùquando si sentì dire che Garibaldi aveva chiamati a sé tutti i suoi maggioriufficiali e i Comandanti di tutte le Compagnie. Grande commozionegrandeattesa. Il campo pareva stare tutto in ascolto. Si seppe poi subito che in quelconsiglio Garibaldi aveva fatti due casi: o ritirarsi a Castrogiovanni e là inluogo forte attendere che la rivoluzione ingagliardisse e giungessero dalcontinente altre spedizioni; oppure gettarsi su Palermo. Si diceva che tutti iComandanti avevano gridato con entusiasmo: "A Palermo!" e che anziBixio aveva soggiunto: "o all'inferno!" Allora corse per tutta quellagente un tal fremitoche parve s'animassero fin le rocce. La gran risoluzioneera presa: presa in quel punto di Gibilrossa dove fu fatto poi sorgerel'obelisco di marmo che vi si vede biancheggiare dal mare e dai montiaricordanza di quell'ora suprema.
Lassù fu anche stabilito l'ordine della marcia; impegno delicatissimoin cuiGaribaldi seppe usare tatto squisito. Egli aveva deliberato di tentare l'assaltodi Palermo dalla Porta Terminipiombando improvvisoall'arma biancasullaguardia quale e quanta essa fosse. Ma in ciò non poteva adoperare le squadredel La Masaneppure quelle armate di fucileperché non avevano baionetta.Eppure non gli pareva né prudente né giustoprivar affatto i Siciliani diquel grande onore di andar primi o almeno coi primialla presa della lorocapitale. Perciò risolse di far marciare alla testa un mezzo centinaio diCacciatori delle Alpi condotti dal Tukoryi quali dovevano cadere come ombreaddosso alla vedetta nemica. La avrebbero trovata oltre certe casea pie' di unaltissimo pioppo. Bisognava impedire come che fosse che quel povero ignotosoldato desse l'allarme alla guardia del Ponte dell'Ammiraglio; sorte strana diun semplicissimo uomodalla cui piccola vita poteva dipendere tutto un mondo dicose grandi.
Dietro quel drappello doveva marciare un mezzo migliaio di 'Picciotti'poi iCarabinieri genovesi e appresso tutte le Compagnie dei Cacciatori delle Alpi.Ultimo in codaavrebbe seguito il grande stormo.
Disposte così le cosetutti quei corpi furono condotti a pigliar il posto loroassegnatonei pressi del Convento che sorge lassùper aspettarvi cheimbrunisse.
I Cacciatori delle Alpi abbandonavano così quei luoghidove avevano passatouna delle loro giornate più tormentosesotto un sole ferocesenz'altro riparoche di poveri fichi d'India. E in tutta quella giornata non avevano ricevuto cheognuno un pane e una fetta di carne crudache avevano mangiato chirosolandosela al fuoco sulla punta della baionettachi scaldandosela sullerocce arse dal solechi tale e quale. Non erano mesti né lietisiincamminavano forse alla morte. Ma se avessero avuto fortunase fosse lororiuscito di penetrar nella gran Palermoe farvi levar su tutto il popolo comeun maree pigliarselache grido di gloria per tutta l'Italiache gioia poipoter dire: io v'era! A ogni modomeglio quel cimento supremomeglio che stardell'altro in quelle incertezzeper finire alla meno peggio e tornare se forsee chi sa comenell'Alta Italia mortificati.
Intanto che veniva la nottefurono fatte dai Comandanti raccomandazioniamichevoli. Marciare in silenzio; non badare a rumore che potesse venire daqualsifosse parte; non si lasciassero impaurire dalla cavalleriase maicomeera da prevedersine fosse capitata sui fianchi della colonna. Contro di essabastava formare i gruppigiovandosi degli accidenti del terrenoe tirare aicavalli. Del restola fortuna di Garibaldi avrebbe sempre aiutatoe all'albasarebbero stati in Palermo. Con certa esaltazione qualcuno ripeteva che Bixioaveva già detto: "A Palermo o all'inferno."

La calata aPalermoalto

Appena fu buiola colonna si mise in marcia e cominciò subito la discesa.Alloradi làfu veduto il vastissimo semicerchio di montiche serra la Concad'orocoronarsi di fuochicome se dappertutto vi fossero dei piccoliaccampamenti. Se si volesse così avvisare il popolo di Palermo perché sipreparasseo confondere i borbonici non si sapeva. Ma intanto quei fuochiempivano di una forza misteriosa l'anima della colonna in marciafino a crearl'illusione che da tutti quei punti movessero su Palermo tante altre colonne diinsortiper assalirla da tutte le portee trovarvisi dentro insieme conGaribaldiil giorno seguentea celebrar la festa dello Spirito Santo. Eraproprio la vigilia della Pentecoste. L'anno avantiil 27 maggioGaribaldiaveva vinto gli Austriaci in Lombardia a San Fermo; il 27 maggio del 1849 avevamesso piede sul territorio del Regno a Ceperanodietro il Borbone fugato daluigenerale della Repubblica romana: anche una terza volta quel giorno potevasegnargli forse una bella data.

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L'ampia stradache oggi sale per agevoli giravolte a Gibilrossaallora nonesisteva. Non era che un sentieruccio giù pel ripidissimo pendiodovebisognava camminare con l'olio santo in manosull'orlo d'un borro tutto balzi esfasciume. Eppureper quella traccia calò senza disgrazie tutto quel mondoanche Garibaldi che andava su d'un cavallo molto tranquilloche finì poi nellemani di Alberto Mariocui fu donato.
Perduto alquanto tempo a riordinarsi giù a piè del montela colonna si rimisein marcia lenta e silenziosa. Ululavano per la campagna a sinistra i cani dalontanissimo; da destra muggiva il mare; non era molto buio; faceva quasifreddoper la gran guazza.
Nel pianola via correva fiancheggiata da muriccioli a secco tra olivetie atratti fra case mute e tetre. Da una di quelle case là attornoveniva untintinno di pianoforteche ora si udiva ora noe dava una di quelle malinconieche son fatte di dolored'amoredi speranzadi desiderid'un po' di tutto ciòche è gentile in noi. Chi mai sonava in quell'ora tanto tranquillamentrestava per cominciare la musica della morte?
E pareva che fosse ancora molto lontano il gran puntoil gran momentoe chel'alba volesse venire più presto del solitotroppo presto. Perciò fu fattoincalzare il passoma sempre più raccomandando il silenzio. Poi la colonnasboccò nella via Consolare. Allora le compagnie dei Cacciatori delle Alpi simisero per quattroserrando così più sottocon l'ordine di tirar avantisenza badare a chi si arrestassee di stringersi ai muri degli orti. I cuoribattevano già. Ma ad un tratto li schiantò addirittura un uragano di grida edi fucilate scoppiato alla testaperché a un certo punto che si chiama Molinodella Scafai 'Picciotti'credendo forse d'essere già alle prime case diPalermosi misero ad urlare. E molti di essipresi chi sa per qual cosa dalpanicosi arrestaronosi scomposerosi rovesciarono sui Carabinieri genovesicagionando il rigurgito di tutta la colonna. Accorse Bixio inviperito contro ilLa Masa; accorse Garibaldi che richiamò lui alla calma; e volto ai Carabinierigenovesi gridò: "Colonne di bronzole spalle anche voi?"All'immeritato rimproveroil Mosto rispose mestoma fermo: "Noi siamo alnostro postoe abbiamo aperte le righe per non esser travolti."
Garibaldi sapeva bene cosa erano quei prodi; e del resto tutto ciò fu un lampoperché pigliata subito la corsa avantiuna corsa impetuosaserratagridata;il meglio della Colonna fu di lancio sotto il fuoco dei Cacciatori borboniciche difendevano il Ponte dell'Ammiraglio. In quella prima luce apparvero ilprofilo a schiena d'asino e i dieci o dodici pilastri interrati del pontebrulicanti d'uomini e d'armi nel fumovisione da sognoma incancellabile ancheper chi non sapeva che quel ponte normanno aveva ben più di sette secoli sullesue pietre.
Così adunque la sorpresa tanto ben preparata era venuta in parte a mancare. Maquei Cacciatori che avevano dormito intorno al Pontecon l'animo sicuro cheGaribaldi era in fuga lontano; a un assalto così violentopresi allabaionettanon ressero a lungoe si ritirarono fuggendo da disperatitanto cheinvece d'andar a piantarsi dietro a una loro gran barricata oltre il crocicchiodi Porta Terminicome avrebbero dovutogiunti appena al crocicchio stessosvoltarono a Sant'Antoninoper sottrarsi a quei dannati Garibaldini chegiungevano di notte a quel modo. Questi inseguivano. E infilavano la via delsobborgo sotto il fuoco d'un altro battaglione schierato sulle mura a sinistra;si arrestavano al crocicchioe subito si mettevano a sbarrarsi la via allespalle. Di lì minacciava la cavalleria che moveva dalla chiesetta di SanGiovanni Decollato. Ma Faustino Tanara da Parmacon un plotone della suaCompagniae il sacerdote siciliano Antonio Rotolocon una grossa squadra di 'Picciotti'tennero quella cavalleria in rispetto.
Oraa passar quel crocicchio faceva caldo. Dal mare lo spazzava la mitragliadelle fregatevi grandinavano le palle da Sant'Antonino. Ma bisognava passarloche se nochi sa quanta forza di nemici poteva tornarviappena si fosserorimessi dal primo sgomento. E vi era già Garibaldi col suo Stato Maggiore.Raggiava. Forse non sapeva ancora che tra il Ponte dell'Ammiraglio e quelcrocicchioin sì breve trattoerano caduti TukoryBenedetto ed EnricoCairoli feriti gravemente. Ben vedeva Bixio tempestar a cavallo su e giù feritoanch'eglirimproverandoingiuriando quasi perché non s'era già presa tuttala cittàe sfogando la sua furia contro di uno che aveva osato dirgli che siguardasse che sanguinava dal petto. Egli s'era già levato da sé il proiettile.E molti in quel breve tratto erano i morti. Giaceva sul Ponte il dottor La Russadi Monte Erice; giaceva presso il ponte Stanislao Lamensa. La morte lo avevafermato lìsenza misericordia per i suoi dieci anni di ergastoloné per isuoi figliuoli che lo aspettavano in Calabria dal 1849. Sotto il Pontefraparecchi altri amici e nemicigiaceva Giovanni Garibaldipopolano genovesemorto di fuoco e di ferro. Placido Fabris da Poveglianogiovane tanto bello chei compagni d'Università lo chiamavano Febogiaceva per morto con tuttatraverso al petto la daga-baionetta d'un cacciatore ucciso da altrimentrevibrava a lui il colpo mortale. E non morì. Dovevaguaritoricomparire quasiun risortoper andarsi a far ferire anche dagli Austriaci a Bezzecca sei annidopo. Bellissimi tipi di siciliani giacevano feriti. InserilloCaccioppoDiBenedettogente che continuò a dare il proprio sangue fino a Mentana. NarcisoCozzoil bello e biondo patrizio palermitano cheuscito tre giorni avanti araggiunger Garibaldisi era unitonell'accampamento del Parcoalla 6°Compagnia; camminava tra quei feritiquei morti e quella calcaquasi andasseinvulnerabile ammirando. Pareva un Normanno di settecent'anni addietrotornatoa guardare come dai moderni si combattesse. A lui la morte diè tempo e spaziofino al Volturnoe il 1° ottobrenella gran battaglia garibaldinalà se locolse.
Bisognava dunque passar oltre quel crocicchio infernalee a un cenno diGaribaldi il passo terribile fu traversatofu invasa alla corsa la via per laFiera Vecchia. Piazza della Fiera Vecchia! Lì all'alba del 12 gennaio 1848quel La Masa che ora conduceva i 'Picciotti' aveva lanciato il suo grido diguerra quasi da soloa piè di quella statua di Palermo che ora non v'era piùperché la polizia l'aveva fatta levare. Ma era la piazza della Fiera Vecchiadavvero quel largo? Non ci si vedeva nessunoprecisamente come nel 1848.Garibaldi quasi impallidì. Un cittadinodi tra i due battenti d'un usciosocchiusogli gridò: "Evviva!" Qualche finestra si apersequalchetesta si sporsema gente non ne compariva né con armi né senza. Fu un istanteda tragedia. Ma appunto per questo avanti! Garibaldi col suo Stato maggiorepreceduto dai più ardentiseguito dall'onda de' suoi si inoltrò per quellevie deserte fino a piazza Bologni. Ivi smontòe nell'atrio del palazzo che dàil nome alla piazzasi assise. Proprio si assise! Ora la sua tranquillitàfaceva quasi paura.
Giungevano intanto i suoi da tutte le parti con notizie diverseconfuseassurde: giungeva Bixio a piedi con in pugno la spada spezzata a mezzofuribondoterribile. Veniva a pigliarsi venti uomini di buona volontàperandare a farsi uccidere con loro a Palazzo reale. "Tanto- gridava - tradue ore siamo tutti morti!" E già si avviavagià voltava l'angolo di viaToledoquando Garibaldi lo fece chiamar indietro.
Garibaldi in quel momento era quasi giulivo. Aveva riso d'un colpo chesfuggitogli da una delle sue pistolegli aveva sforacchiato il lembo deicalzoni sopra il malleolodove fu poi ferito due anni appresso in Aspromonte:aveva confortato due giovani prigionieri napolitani; aveva baciato nel nome diBenedetto Cairoli qualcuno della 7° Compagniae baciandolo gli aveva detto cheintendeva di baciare in lui tutti i presenti. Giulivo era anche perchécominciavano a comparire dei cittadini ansantitrasecolati. Dunque era veroera entratoera Lui? E guardavano quei capelli ancora così biondiquellabarbaquel torso erculeo nella camicia rossaquelle gambe un po' esili e queipiccoli piedi da gentiluomo. Adoravano. Era lui e non avevano creduto! Il romoredella fucileria di Porta Terminil'avevano preso per uno dei tranelli dellapoliziache già parecchie volte aveva sull'alba fatto sparare qua e là; esempre chi era stato pronto a scenderecredendo di gettarsi nella rivoluzioneera invece caduto in mano dei birri. Così raccontavano quei cittadini. Dunquese la città non era subito insortanulla di malepurché si facessepurchénon si lasciasse tempo ai nemici di riaversi: barricate! barricate! Non si sentìpiù gridar altro che barricate. Garibaldi diede l'ordine all'Acerbimantovanodi mettersi a quel lavoroe gli designò compagno il palermitano duca dellaVerdura; formò un comitato provvisorio per il governo della città presiedutodal dottor Gaetano La Loggia: ma veramente il governo era lui.
E le campane cominciarono a martelloperché la polizia aveva fatto levar viail battaglio da tutte. Prima suonò quella di San Giuseppepoi un'altrapoialtre e altre; tutta la città si svegliava: Santa Rosalia! Santo Spirito! Chec'era mai? Garibaldi? Garibaldi era venuto dentro in quel giorno di festareligiosacerto lo aveva voluto Iddio. E nessunoforse nessunopensò chequell'uomo con sì poca gente era entrato a tirar su la cittàsu di sésuisuoilo sterminio.
Tra quei cittadini vi erano fin dei preti. Quello altomaestosocon la grantesta già grigiaera l'abate Ugdulena; e quell'altro smilzopallidovibranteera prete Di Stefano. E giunsero degli uomini in divisa che parevanodi cavalleriagiubba rossacalzoni azzurri. Disertori forse? Al portamento no;e poi non avevano armi. Donzelli del comune eranoche venivano dal Palazzopretorio. Dunque la magistratura cittadinail Pretorei Decurioni erano giàin moto? No. Essi erano borbonici quasi tuttie quasi tutta l'aristocraziaborbonica se n'era fuggita a Napolio ritirata sulle navi in radastava alsicuro. Ma insomma quelli erano i Donzelli del Palazzo. Sui bottoni dorati delleloro divisesi leggeva la sigla: S.P.Q.P. 'Senatus populusque palermitanus'. MaGiuseppe Giustaartigianolingua di fuocolesse subito a modo suo: "SonoPochi Quanto Prodi." Il frizzo non destò allegria perché quello non eramomento da celie; anziqualcuno disse che Giusta celiava per farsi dar giùforseun po' di paura. Ah la paura! Strana affezione. V'erano lì dei giovaniche nella nottedurante la marciaavevano forse tremato; e adesso si sarebberomessi da soli a qualsifosse cimento.
Perché adesso era davvero aperta la via a tutte le provee la città s'avviavaa divenir tutta un campo. Verso Sant'Antonino si combatteva; da porta Macquedai cannoni del generale Cataldo tiravano lungo la gran via; quelli del generalein capo Lanzada Palazzo realespazzavano tutta Toledo. Non pareva vero che ilforte di Castellamare tacesse ancora. Si sapeva già che ivi comandava ilColonnello d'artiglieria Briganti; si seppe poi che un suo figliuolo capitanoera stato ai mortaiaspettando l'ordine di cominciar il fuocoe che rapitodalla voglia di mandar la prima bomba sulla città ribelleaveva già mormoratocontro suo padreminacciando persino d'andar egli stesso a scuoterlo. Ma versole sette l'ordine gli fu mandatoe allora si udì un gran tonfo a Castellamaree su nell'aria un gran rombo. La prima bomba piombò. Cominciava quelbombardamentoche con terribili pause di cinque minuti tra bomba e bombadoveva durare tre giorni e farne piovere sulla città ben mille e trecento. Esubito scoppiarono qua e là degli incendi. A mezzogiorno in punto si misero poia tirare anche le navi.
Intanto Garibaldi era passato col suo Quartier generale nel Palazzo pretorio. Làcon un suo decreto da Dittatoresciolse il Municipioper nominarecome feceil dì appressoun nuovo Pretore e nuovi Senatori. Ora la cittàanzi laSicilia era lui. Da quel centro si diramavano i suoi ordini alle piccole colonneche si erano spinte in tutti i versi alla periferia della città. Erano gruppidi Cacciatori delle Alpicui si univano fidenti e volenterosi i 'Picciotti'entrati il mattinoe via via cittadini d'ogni ceto usciti di casa con armi osenza. E dove avveniva uno scontro coi borbonicii disarmati aspettavanobramosi che qualcuno cadessene prendevano l'armale cartucceil postoecombattevano esultanti. Un grosso nerbo della 8° Compagnia avanzò per vietraverseverso Palazzo reale fino alla gran Guardiae di lì fugò il generaleLandiquel povero vecchio Landigià battuto a Calatafimi.
Un po' della 6° con parte della 7° e alcuni Carabinieri genovesiandavano perpigliare il convento dei Benedettini; la 5° si spingeva verso porta Macquedafino a Villa Filippina. Ma dir Compagnie non è preciso. Queste si erano frantee si frangevano ognor più in manipolie ogni manipolo seguiva il più stimatofra quelli che lo componevanoo chi si mostrava più ricco di partiti. Cosìdei vecchi ubbidivano a dei giovinetti; uomini in divisa d'ufficiali silasciavano consigliare da studenti che non avevano mai visto una caserma;qualcuno come Vigo Pellizzari checaduto Benedetto Cairoliera divenuto ilComandante della 7°rivelava qualità di vero uomo di guerra; Giuseppe Dezzadella 1° suppliva da bravissimo il Bixiochenon potendo più reggere dalmolto sangue perdutoera stato costretto da Garibaldi a ritirarsi in casaUgdulenae aveva ubbidito mordendosi per ira le mani.

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I borbonici avevano lasciato passare il momento buono ad invadere la cittàcome avrebbero potuto. Quattro o cinque ufficiali audaci che si fossero mossiciascuno alla testa d'un mezzo battaglionee avessero marciato verso il centrotutti a un tempopur seminando di morti e di feriti la viabastavano aschiacciar tutti. Ma forse nessuno aveva osato cimentarvisiper paura dientrare a farsi seppellire sotto un po' di tuttoda tutte le casemobilipietreolio ardente. Adessodopo quattro ore dall'entrata di Garibaldisarebbe già stato difficile riuscireanche se i borbonici ci si fosseroprovati; e già si vedeva che prima di sera sarebbe divenuto addiritturaimpossibile. Poiché nelle vie sorgevano come per incanto barricate per tutto.Dagli usci venivano fuori carricarrozzebotti; dalle finestre piovevanomobilimaterassefin pianoforti. E tutto era subito raccoltoammontatoserrato insieme. Poi a forza di picconi e di leve si spiantavano li lastre dellevie; e queste sìqueste servivano bene! Parevano fatte apposta. E con essevisto o non vistovenivano alzate su delle vere murauna barricata a diecimetri dall'altra; fin troppecome disse poi Garibaldi. Vi lavoravano e uomini edonne e fanciulliche si rissavano tra loro facendo a chi ubbidisse megliosedai pannidai capellidall'accentoriconoscevano un garibaldino in chicomandava. Le popolane poi parevano furie. "Signurinui riciano ca di linostri trizzi un'avianu a fari ghiumazzo pi li so mugghieri! Scilliratiinfami!" E davano dentro da disperate a portar pietre e sacchi di terra.
Il Comitato delle barricatecomposto di cittadini esperti ancora del 1848presedeva a quel lavoro che metteva sossopra il lastrico di ogni via. E già sivedevano uomini sugli orli dei tetti ad ammonticchiarvi tegoleuomini suibalconi a preparar mobili da buttar giùse mai le milizie borboniche sifossero avventurate.
Ma quelle milizie non si muovevano all'offensiva. Anziverso le sedicicome sidiceva là all'uso antico d'Italiail general Cataldo che occupava i pressi diPorta Macquedai Quattro venti e il Giardino ingleseassalito dalla cittàtormentato alle spalle dai 'Picciotti'si ritirava al Palazzo reale; e alPalazzo reale si ripiegava il generale Letiziascacciato dal rione Ballerò.Sicché al Palazzo e nella piazza e negli orti intornosi trovavano dadodicimila soldatisotto il generale Ferdinando Lanzaalter ego del Reuomodi 72 anni che aveva a lato Maniscalcoil fiero capo della polizia. E allora lecarceri non più custodite si aperseroe ne sbucarono duemila condannatiorribile ingombro gettato tra i piedi alla rivoluzioneperché potevano solodisonorarla. Ma Garibaldi provvide. Vietò d'andar armati senza dipendere da uncapo; vietò di perseguitar i birri sperduti; decretò pena di morte al furtoal saccheggio: fece tremare e fu ubbidito.
Lavoravano intanto i mortai di Castellamareche nel pomeriggio di quella primagiornata presero specialmente di mira il Palazzo pretoriosul quale misuravanol'arcata delle loro bombe. I nemicinon da palermitanima da qualche birrovagantedovevano aver saputo che in quel palazzo si era messo Garibaldieperciò cercavano di seppellirvelo sotto col suo Stato maggiore! Non viriuscivano; ma le loro bombecadendo nelle vicinanzefacevano delle grandirovine.

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A nottequel fuoco da Castellamare cessòe cessò anche quello dellafucileria quasi per tutto. Ma la veglia fu vivaincessante. Le finestre dellecase cominciarono a illuminarsiper le vie ci si vedeva quasi come di giorno.Ed era un andirivieni dalle parti della città al Palazzo pretorio e di lì alleparti; sicché pareva che i combattenti si dessero il cambio nei posti cheoccupavanosolo per andar un po' dal Generalee rifare nella vista di lui lesperanze e le forze. Egli aveva fatto mettere una materassa sulla gradinatadella fontana di Piazza Pretoriarimpetto al gran portone del Palazzoe làapie' di una di quelle alte statue che la adornanoriceveva notiziedavaordiniriposavaGiovanni Basso da Nizzasuo segretario e compagno suglioceaniGiovanni Froscianti da Collescipoli antico fratePietro Stagnetti daOrvietoveterani della Repubblica romanagli facevano guardia: dall'altraparte della piazzanelle scuderie di palazzo Serradifalcostavano sellati icavalli delle Guide. E sul portone di quel palazzo si vedeva Giovanni Damianivigile come un'aquilapronto a qualche partito supremo di Garibaldise forsefosse venuta l'ora della disperazione.
Di quelli che andavano e tornavanotaluni si sentivano chiamar dentro dagliusci di qualche casa o palazzo socchiusi. E là nei cortilisotto i porticatigiù nei sotterraneitrovavano donneuominifanciullisignori e servi; equesti a gara se li pigliavano in mezzo curiosie li tempestavano di domande: edi dove eranoe come si chiamavanoe se avevano madrisorelle. E stringendoloro le manitastavano se queste erano fini; maravigliavano a udirli parlare dagentili uomini. Li ristoravano di cibi e di vini squisiti; empivano loro letasche di biancherie; mostravano le coccarde tricoloritriangolari comel'isola; li baciavanoli pregavano di farsi portar da loro se mai cadesseroferiti. E le donne esaltate congiungevano le mani come in chiesa; e le fanciullesorridevano estatiche nei grandi occhi lucenti; e poi a veder coloro andarsenepiangevano come sorelle amorose.
Nei posti in faccia al nemicoquelli che vegliavanoricevevano le notiziedelle cose avvenute altrove. Ai BenedettiniGiuseppe Gneccocarabinieregenovesesi era lanciato alla gola di un ufficiale borbonico e lo aveva trattovia seco prigioniero. Là e lài tali della tale Compagnia o della tal'altraavevano formato barricate mobili con botti rinvolte in materassee spingendoleavanti a forza di spalle sotto il fuoco dei borbonicierano giunti fino allecase occupate da questie balzati dentrofulminei avevano preso le case e idifensori.
Metteva una certa sicurezza negli animi sapere che ormai tutta la parte bassadella città era in mano degli insortisalvo il palazzo delle Finanze in piazzaMarinache era ben tenuto d'occhio perché i borbonici non potessero portar viail tesoro. Anche la caserma di Sant'Antonio era stata presae molti vi si eranoriforniti di bellissime armi. Là Andrea FascioloCarabiniere genoveseavevadato tutto il giorno lo spettacolo d'un coraggio che i suoi compagniper direquanto erachiamavano coraggio sfacciato.
Cominciava a disertare qualche ufficiale borbonico: al Palazzo pretorio eragiunto il tenente Achille De Martinicomandante dei cannoni a Calatafimie siera dato anima e corpo a Garibaldi. Intanto seguitavano a entrar in città daporta Termini e 'Picciotti' e 'Picciotti'; da porta Macqueda era entratoGiovanni Carraocon la squadra che era stata di Rosolino Pilo. E la nottepassava.

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Ma i mortai di Castellamare suonarono presto la diana del 28e prestoricominciò il fuoco dappertutto. Dappertutto la rivoluzione vinceva. Madolorose perdite si fecero fin dalle prime ore di quel secondo giorno. EnricoRichiedei da Salò ed Enrico Uziel da Veneziafurono uccisi da una palla dicannone che li compì tutti e due al capolasciandoli morti sfigurati l'unovicino all'altro quei due fiori di giovinezza.
Antonio Simonetta milanese diciannovennepuro come uno di quei fraticelli checantarono al letto di San Francesco morenteuscito l'anno avanti incolume dallabattaglia di San Martinocadeva al convento dei Benedettinidove gli amici necercarono poi invano il corpo e la fossa. E ai Benedettini cadeva GiuseppeNaccari palermitanoreduce dall'esilio coi Millecadeva senza aver ancorriveduto la sua famigliaanch'egli bellezza maschiache nella 6° Compagniaper la molta somiglianza col gran lombardo morto a Roma nel 1849era chiamatoLuciano Manara. Nel campanile di quel convento fu ucciso Crispo Cavallini daOrbetelloaltro bel forte cui toccò di morire senza lasciar il nome allaschiera dei Mille. Egli fu dimenticato come uno che non avesse avuto néparentiné amiciné nulla. E forse felice luise morendoavesse potutoindovinare quell'oblio; perchédiciamo noiportar seco nella morte tutto séstessola gloria e il nomedeve esser una gioia più che da uomo. Noninsegnava così l'ordine del giorno di Garibaldi letto nella traversata in altomare?
Ai Benedettini combatteva il Mosto co' suoi CarabinieriCarabiniere infallibileanch'essoe dal campanile fulminava gli artiglieri del bastione Porta Montaltoobbligandoli a lasciar muti due pezzi. Lo secondavano tranquillamentecon tiriche coglievanoGiambattista Capurrogiovinetto che aveva la testa bendata peruna ferita in fronteed Ernesto Cicala benché già toccato malamente da unascheggia di granata. Vicini e mirabili per la calmafacevano i loro tiriStefano Dapino e Bartolomeo Savitesta d'oro da cherubinotanto era biondoilprimo; l'altro arruffato quella sua testa grigia piena sempre delle tragedie diSofocle.
Si combatteva dunque dappertutto e si dimenticava ogni cosa. Ma se qualcuno nonsi sentiva più dalla famei conventi dei frati erano là divenuti ospizi. Ivile cucine fervevano. Bastava dar una corsa làe uno ci trovava il cuoco e ilcantinierepronti a scodellare e a mescere. Si ristorava e viatornavabenedetto a farsi onore. Dei frati verimolti parevano più rivoluzionari deigaribaldini stessi; qualche vecchio brontolava paurosoperché dellerivoluzioni ne aveva già viste troppe e tutte finite malequella del '20 equella del '48.
Si dava da mangiare anche nei refettorii e nei parlatorii dei monasteri. Folledi monacelle bianche si premevano a guardar dalle portee parevano stormi alatid'angelidiscesi come nella poesia a contemplar i figli degli uomini. Qualcunaosavacorreva quasi ad occhi chiusie al primo cui le capitava di stendere lebraccia metteva al collo una reliquiasubito fuggendo beata come se avesserapita un'anima al purgatorio. Colui per quella non pericolava più. Invecedelle vecchie suore si mettevano a discorrere in mezzo agli ospiti armati elaceri e sporchi di polvere; e li interrogavano curiosee domandavano seGaribaldi era cristianogiovanebelloe li pregavano di vincere e di tornarepoi a dar loro le notiziea difender loropovere monacelledalle gentiborboniche crudeli. Non sapevano ancora che i monasteri dei Sette Angeli e dellaBadia nuova erano stati saccheggiatiné che quello di Santa Caterina bruciava.
Lì sì! C'era bisogno d'aiuto! Ma nel gran trambusto che assordava tuttinessuno aveva ancor badato che lì come altrove c'era l'incendio. Eppure ilmonastero sorgeva a lato del Palazzo pretorio! Il fuoco vi aveva cominciato daltettoa cagione di una bomba di quelle destinate al Palazzoscoppiata in aria.E l'incendio era disceso di piano in piano. Solo verso la sera del 28qualcunopensò che là dentro c'erano delle povere creature. E allorasfondata la portadel monasterovi entrarono dieci o dodici Cacciatori delle Alpi con dei 'Picciotti'a tentar di salvarle. Nel piano terreno ci si poteva ancorama cerca di quacerca di là non si trovavano monache in nessuna parte. Che si fossero lasciateperir arse nei piani superiorinon pareva da credersi. Finalmente uno andònell'oratorioe là ne vide checome larve bianche nella penombra in fondopiangevanofuggivano a nascondersi fino in certe loro catacombe. Raggiuntesiinginocchiavano in terratorcendo le bracciaporgendo le gole come a deicarnefici; pregate di uscir di là dentroperché presto non ci sarebbe statopiù temponon volevano lasciarsi condur via a niun patto. Sicché quei soldatidovettero minacciare di porre loro addosso le mani per salvarle a forza. Eallora esse si lasciarono mettere in filalunga fila di religiose di tutte leetàmonache e converse. Ve n'erano di bellezza celestialegiovani comeaurore; ve n'erano delle vecchie mummificate. I fratelli Carlo e PietroInvernizzi da Bergamobizzarrissimi spiritine portavano via sulle spalle unaper ciascuno quasi paralitichee mentre che agli atti pareva che reggessero deireliquiariparlavano in bergamasco da diavoli cose che avrebbero fatto ridere isassi. Fu questa la sola profanazionese si può dir così; tutti gli altrivennero fuori serii con quella strana processione; e a vedere la raffinatezzadei riguardi che sapevano usarefaceva orgoglio. Condussero quelle meschine aun altro monastero; e lànella gioia della salvezzaqualche stretta di manosin qualche bacio fu dato e preso.

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La seconda giornata passò dunque come la prima e peggio; ma la terza furonocose indescrivibili. Tutte le vie erano ormai gremite di gente. A cagione delbombardamentolo stare in casa era più pericoloso che lo star fuori; perchédove una bomba cadeva su di un tettosprofondava giù fino a terrenoscoppiavae faceva crollar tutto. Invece per quelle che cadevano nelle piazze o nelle viela gente si gettava a terrale lasciva scoppiarepoi susi levava gridando:"Viva Santa RosaliaGaribaldil'Italia!" E si esaltavae silasciava pigliare da un certo cupo entusiasmo della stragesenza neppur piùinorridire perché qualcuno restava a terra morto o ferito. Di tanto in tanto siudiva uno scoppio di grida furiose qua e là; erano donne del popolo che avevanofatto la posta a qualche birroe riuscite a pigliarlourlandogli "SorcioSorcio!" lo malmenavanolo straziavano a brani. Così dovevano averurlato:"Mora! Mora!" le loro antenate dei Vespri. Sennonché orabastava che capitasse in tempo un garibaldino a stender le mani sul birrosciaguratoe quelle donne glielo cedevano vivoquasi contenteurlando ancora:"Viva Santa Rosalia!" Di quei miseri servi della polizia ne furonosalvati parecchi in tal modoe pel momento venivano messi nei sotterranei delPalazzo pretoriodove almeno nessuno poteva più torturarli.
Così le turbe si aggiravano per la cittàpassando da barricata a barricatapei vani lasciativi apposta; e incontrandosi ai Quattro Cantoni si incrociavanosi acclamavano e si confondevano come quattro correnti. Ivi un gran tendonetirato tra due palazzi celava la metà di via Toledo verso porta Feliceall'altra metà di lì in suverso al Palazzo reale. Perciò i borbonici delPalazzo non potevano più comunicare a segni con le loro navi da guerra delporto. Quel tendone era come un immenso arazzo bene istoriatoe però spiacevavederlo sforacchiare dalle cannonate borboniche; ma dal Palazzo reale ci sierano accaniti contro. Diceva un Cattaneo da Bergamorimasto loro prigioniero emandato a Garibaldi per certa ambasciatacon promessa sua che sarebbe tornatocome infatti volle tornare; diceva che i borbonici già quasi ridotti a cibarsidi lattugheprovavano dispetto e noia di quel tendone più che di tutto. Eranoanche arrabbiatiperché l'Ospedale militare pieno di risorse era stato presodai garibaldini.
Dunque tra gli strazi che si vedevanole buone notizie davano gran conforto. Esi seguivano. Il bastione di Porta Montalto era stato preso dal colonnelloSirtorimosso dal convento dei Benedettini alla testa di alcuniche si eranolasciati mettere in petto il fuoco dell'eroismo da quel prete soldato. I regidell'Annunziata erano stati costretti a sgombrare; e comparivano a Palazzopretorio dei giovani che avevan durato a star là giorno e notte per vincerequel posto. Venivano carichi di armie alcuni portavano superbi mantelli toltia quei nemici. Ma correvano intanto gli annunzi delle morti e delle ferite.Adolfo Azziil forte timoniere del Lombardoera caduto con una cosciatrapassata da una palla; Liberio Chiesachiassoso ma prodegiaceva anch'eglicon una gamba spezzata.
A confortar i feriti un po' dappertuttoandava il prete Gusmaroli da Mantovaeportava loro i saluti dei combattentie tra i combattenti tornavaserbando unacalma e una pace di cuore meravigliosa. Mai che impugnasse un'arma! Essereucciso poteva; uccidere no. Egli non voleva macchiare di sangue le sue mani disacerdote. Andava così vendicandosi a modo suo dell'offesa che gli aveva fattol'Austriaimpiccandoli nella sua Mantova OrioliGrioli e Speri e Poma e glialtri di Belfiore. E siccome somigliava molto ai ritratti di Garibaldiperquestodove apparivai 'Picciotti'credendolo il Generale in personasotto isuoi sguardi gareggiavano a chi mostrasse d'aver più cuore. Egli aveva alloraquarantanove annima se avesse saputo quali dolori gli serbavano gli altridodici che stette poi ancora al mondosi sarebbe augurato di averne cento permorire se non lo volevano le palle di qualunque altra mortema làma allora.Finì nel 1872in una misera casupola della Maddalenadove era suo soloconforto contemplare almeno l'altra isolaquella di Garibaldidal cui cuore fufatto cadere.
Bello e grande fu l'atto della 8° Compagnia chemantenutasi più compattadelle altre per l'ostinata voglia di occupare la Cattedralevi riuscìfinalmente alle quattordici di quel terzo giorno. Rovinava allora lì a lato conindicibile fragore il palazzo del principe Cariniincendiato da una bombacomeerano già rovinati i palazzi CutòD'Azzale e altri. E allora appuntoinfaccia ai borbonici di Palazzo realequei bergamaschi invasero tutto il difuori del tempio e dentro e su fino il campanile. E di là si misero a tiraresui soldati stipati nella gran piazza. Uccidevano a schioppettate gli artiglierisui pezzi. Il loro capitano Bassini li governava coi trilli di certo suofischietto da cacciatorefumando alla pipatutto scoperto ai nemici che lotempestavano di palle senza toccarlo. Ma egli si credeva invulnerabile.

*

A quell'ora il generale in capo Lanzavolendo tentare una disperata provamandò il generale Sary a ripigliar la Cattedrale; e il generale Colonna aripigliare i Benedettinil'AnnunziataPorta Montalto. Inutile sforzoinutilestrage. Tutti gli assalti furono respinti dai garibaldinidai 'Picciotti' e daicittadini. I borbonici lasciarono più di cento morti e forse quattrocentoferitiintorno alla Cattedrale e per le vie percorsema ritirandosiincendiavano le caseuccidevano gli inermiviolavano le donne. Erano diventatiselvaggifuriosi. Forse facevano cosìper dare l'ultimo sfogo all'odiosecolare mantenuto vivo contro l'isola in lorosudditi dell'altra parte delregno; forse li faceva divenir più crudeli lo spettacolo degli incendiardentiin più di sessanta luoghi della città; tra i quali più grande e spaventosoquello del quartiere intorno San Domenicotutto in fiamme.
Ma se le sorti volgevano a male per i borbonicianche dalla parte di Garibaldicrescevano le angustie. Quella sera non v'erano quasi più munizioni. Silavorava a fabbricare polverema non ne veniva abbastanza pel bisognospecialmente perché i 'Picciotti'come scrisse poi Garibaldisparavanotroppo. E da tutti i punti della città dove si combattevagiungevano uomini achieder cartuccecome chi spasima per fame chiede pane. Gli aiutanti delGenerale rispondevano alzando le braccia muti: il Sirtorisempre tranquilloraccomandava di dir dappertutto che le munizioni giungerebberoche intanto icombattenti s'ingegnassero con la baionetta. E invocava la notte. Almeno cisarebbero state alcune ore di riposo. E poi girava già viva la voce che tra iregi fosse cominciato un grande scoraggiamento; si diceva che altri loroufficiali erano passati alla rivoluzionetra i quali due capitani del genio edera vero; e ormai pareva certo che i dodicimila uomini del Palazzo realestessero isolati affattosenza viveri e senza comunicazioni col porto e conCastellamare. Dunque una risoluzione il loro generale l'avrebbe dovuta prendere;o avventarli tutti a morire o capitolare. Ma venuta la notte l'inquietudine noncessòanzi faceva terrore il pensiero di quel che sarebbe potuto succedere ilmattino seguente; e quasi si agognava che fosse già l'albaper tornare nellafuria invece di consumar l'anima in orribili fantasie.
Anche Garibaldi ebbe quella sera un momento in cui quasi disperò. Gli avevanoportato la nuova che erano sbarcati alla Flora due battaglioni di bavaresigente aizzata da Napoli e per tutta la traversata con feroci promesseedesaltata dalla lusinga d'aver essa l'onore di dar il colpo mortale allarivoluzione. Ma la notizia non era esatta. I due battaglioni erano sbarcati sìma non alla Flora. E il generale Lanza aveva commesso l'errore di chiamarseli alPalazzo reale. Dunque erano men da temersistando essi nelle mani di chi nonsapeva adoprar bene neppur le buone truppe che aveva già. E Garibaldi sirassicurò. Ma quella era la notte del doloreed Egli ebbe pur quello di venira sapere che alcuni de' suoitre o quattro in tuttinon potendo più star conl'animo alla pauraerano ricorsi ai consoli stranieriper farsi munire dipassaporti. Il dolore che ne provò non si può dire; la pena del suo disprezzoche inflisse a quei tali fu mortale. Uno di essipoiche portava un bel nomenizzardoera ricorso al consolato di Francia! Il Generale ne pianse. Glitoccava lànel pieno della sua grandezzafosse pure alla vigilia forse dellacatastrofe supremagli toccava là quella atroce puntura di veder quel suo uomoaver riconosciuto con quell'atto che Nizza era Francese! Eglicosì proclive acompatirea scusarenon perdonò; e il nome di quell'uomo fu spento.

*

Il giorno appressomentre il fuocoriacceso in tutti i punti sin dall'albalasciava indovinare ne' regi una certa stanchezzama teneva pur sempre in forsedell'esito finaleGaribaldi ricevè un messaggio del generale Lanza. Questi chesin dal 28 aveva chiesto all'Ammiraglio inglese d'intromettersi per imporre unabreve treguaonde si potessero raccogliere i feriti e seppellire i mortimaperò senza trattare egli con Garibaldi; e dall'inglese aveva ricevuto inrisposta che appunto a Garibaldi doveva rivolgersi: ora nel suo messaggio davadi Eccellenza al 'Filibustiere'! E gli chiedeva un armistizio di ventiquattr'oree lo invitava a un ritrovo con due suoi generaliper trattar d'altre cose.Designava per luogo la nave ammiraglia inglese. Garibaldi concesse subitol'armistizioaccettò l'invito al ritrovoe da una parte e dall'altra fusubito dato l'ordine di cessare il fuoco.
Erano le undici antimeridiane. Il ritrovo doveva avvenire alle ore quattordici.Ma mentre Garibaldi trattava di queste cose nel Palazzo pretorioesottoscriveva l'armistizio col Colonnello messaggero del Generale nemicogligiunse un grido di tradimentopropagato sia da Porta Terminigrido terribiledi cui veniva interprete a luismaniandoquel prete Di Stefano che gli eraapparso dei primiil mattino del 27. Insomma a Porta Termini erano giunti amarcie forzate i cinque i seimila uomini del Von Mechel e del Boscoquelli chedal dì 24credendo di inseguir Garibaldi in fugaerano andati fino a Corleone.Làavendo alla fine saputo l'inganno in cui erano cadutis'erano rivoltivolando al ritorno; ed adesso erano lì alla porta stessa per cui Garibaldi eraentrato in Palermofuriosisguinzagliati dai loro comandanti come belve fuordi catena. Una mezz'ora prima che fossero sopravvenutientravano di lancio finoal Palazzo pretorioperché da quella parte della città le barricate non eranoquasi guardate. E chi sa? forse Garibaldi sarebbe finito davvero nella tragedia.Invano li avevano voluti arrestare combattendo gli accorsi al grido del loroarrivo; i Bavaresi avanzavano di barricata in barricataerano già alla FieraVecchia.
Ma l'armistizio era firmato. Il Colonnello borbonicomessaggero che si trovòdi fronte a Garibaldia sentirsi dare quasi di traditoresi offerse di andaregli stesso a fermare quella terribile colonnae andò lealmente. Garibaldiseguì. Tra via incontrarono il colonnello Carini che veniva via di làportatosu d'una barellaferito gravemente ad un omeroe gridava di accorrerediaccorrereche se no era finita.
Alla vista del Colonnello borbonico che sventolava un fazzoletto biancoiBavaresi si fermarono come d'incanto. Ma i loro colonnelli Von Mechel e Boscoquando seppero dell'armistizioparvero lì per lì per andare in pezzidall'ira. Ah quel Bosco! Egli sicilianocaro per certi liberi sentimenti a'suoi amici palermitaniaveva fiutato nell'aria che la fortuna stava perpassargli vicino esmesse le buone ideesi era preparato a pigliarla peicapelli. Quel Garibaldi cuisecondo che si dicevasi era vantato d'avermandato a sfidare a duelloegli ora si era figurato d'averlo già nelle mani.Allora sarebbe divenuto il primo uomo del regno. Che sarebbe più contatorimpetto a lui NunzianteIschitellaFilangeri stesso e tutti insieme i vecchiservitori e salvatori della dinastia? Era giovanebelloproded'ingegnostava per valorenell'esercito borbonico quasi come poi il colonnelloPallavicini stette in quello di Vittorio Emanuele; Francesco II avrebbe regnatodi nomeegli di fattoe nella reggia e nel Regno sarebbe stato più che re. Mail gran miraggio gli si dileguò in quell'istanteond'egli rimase là allaFiera Vecchia tempestoso. Però nella sua colleraispirava quasi ammirazione.
Cessato anche il fuoco alla Fiera Vecchia come già per tutta la cittànon siudì più che qualche colpo di qualche mal disciplinato sperduto. Ma allorapeggior di quello del combattimentocominciò lo strazio dei feriti e dei mortida cercare. Se ne trovaron dappertutto. Facevano grande pietà le donneivecchii fanciulli. Quanti destini infrantiquante lacrime da essi lasciatedietro!
E dal Palazzo pretorio fu subito dato l'ordine di riunire le Compagnie deiCacciatori delle Alpi ciascuna a un punto designatodove si dovevanoraccogliere tutti coloro che non fossero impegnati alla guardia dei posti. Cosìoltre il numero dei mortisarebbe stato possibile sapere il numero dei feritiricoverati negli ospedali o nelle case dei cittadini. Allora avvennero gliincontri dei compagni che in qualche momento di quei tre giorni si erano perdutidi vista fra loroe nella confusione avevano partecipato ai fatti d'arme inpunti diversidubitando reciprocamente della vita gli uni degli altrio avendoricevuto notizie vaghe di ferite e di morte. " E tu dove ti sei trovato? Etu cosa hai fattoe dove eri la notte tale? dove hai mangiatodormitovissuto?" Ve n'erano di così storditidi così disfatti dalle vegliedalle fatichedalle emozioniche non sapevano nemmen essi che dire. Ma parlavaper loro il loro aspetto. Di alcuni che parevano riposati e pasciuti simormorava. E cosìalla grossasi poté fare il conto delle morti. Non eranomolte. La vittoria di Calatafimi era costata assai di più. Ma in Palermo leCompagnie avevano combattutogovernandosi ogni soldato quasi da séesponendosi appena quant'era necessario per far fuocoe avanzando conquell'abilità naturale con cui si sa cogliere il destro a scansare i danniapigliarsi i vantaggi. Invece moltissimi erano i feritii più nel capo o nellaparte superiore del torso. Le barricate avevano salvato il resto della persona.Ed era stata fortunaperché i feriti nelle gambe morirono poi quasi tutti.
Molti più erano i morti borbonici. In certi luoghicome al bastione di PortaMontaltoerano così fittiche non si capiva chi ne avesse potuti uccideretanti. Ma quasi nessun ufficiale tra loro. Di questiin tutti i tre giorninonne morirono che quattromisera testimonianza del valore di quella ufficialitàse pur non fu una manifestazione di sentimento già nato negli animialmen deigiovaniquello dell'inutilità d'ogni sacrificio contro colui cheimpersonandola milizia di un altro Rerappresentava un'idea della quale sarebbero stativolentieri soldati.
In quel pomeriggiotutti si misero a dar una ripulita alle armi; poi chi di quachi di lài più andarono a visitar i compagni feriti o a trovar le famigliedalle quali erano capitatidurante quell'inferno dei tre giorniper caso o perchiedere un tozzo o un sorso. E là erano accoglienze da principi. Ve ne furonoche capitarono in casa di gente altolocata ma malveduta dal popoloe che senzasaperlo servirono di copertura agli ospiti da cui furono tenuti in casa comeguardie. Altri furon visti accompagnar di qua e di là tra la folla famigliesgomente checosì protettesi facevano condurre nei monasteri o alla marinadove si imbarcavano per andare al sicuro su qualche navead aspettare il restodella tragedia. Perché ventiquattr'ore di armistizio sarebbero presto passate.
Intanto allo Stato Maggioreil Turril Sirtorigli altri non perdevano iltempoe tutto quel pomeriggio fu dato loro a fabbricar polverea ordinare unpoco i 'Picciotti'a far mettere in batteria certi vecchi cannoni cavati fuorida dove erano stati nascosti nel 1849. Altri ne furono messi suavuti in dono ocomprati dai bastimenti mercantili che stavano in rada. E i 'Picciotti' vifacevano intorno la rondali lustravano e li coprivano di immagini sacreimprovvisavano fin delle laudi a quei bronzicome se fossero eroi o santi. Ilgiorno appresso si sarebbe sentita la loro voce. Nei luoghi della città piùaffollatisebbene l'andirivieni fosse più che mai vivobande musicalisuonavano arie patriottiche dell'Attiladei 'Due Foscari'dei 'Lombardi'oinni del Quarantotto; qualcuno suonava già anche "Si scopron letombe..." Ecosa meravigliosainvece di far adagiare gli animi nellasperanza che la lotta non ricominciasse piùl'armistizio li aveva ancoraconcitati. Perciò si vedevano le gronde dei tettii balconile finestresempre più carichi di materiale da buttar giù; e tra la gente che lavorava afar sempre più alte le barricatesi sentiva dire con sicurezza che neppurecentomila uomini avrebbero più potuto venir da fuori al Palazzo pretorio.

Queste erano esagerazioni battagliere. Ma cosa grande davveroche passal'immaginazionefu sul tardi il ritorno di Garibaldi dal suo abboccamento coigenerali borbonici Letizia e Chrétienavvenuto a bordo della nave ammiragliainglese. Egli vi era andato lasciando in angoscia indicibile chi lo sapeva. Edessendo giunto a un luogo del porto detto la Sanitàproprio nel momento in cuivi giungevano i generali nemicil'ufficiale della lancia inglese non sapendoche far di megliolo aveva imbarcato insieme con quei due. Come si sentisseroin compagnia di quell'uomo in semplice camicia rossa essi tutti galloninon èfacile immaginare; ma narrava il capitano Cenni che parevano aver voglia di farl'altezzoso. E difatti nelle trattativeuna volta a bordo e cominciata laconferenzail general Letizia affettava di non rivolgersi a Garibaldieparlava con una certa alterigia. Ciò dispiacque all'ammiraglio Mundy e aicomandanti navali franceseamericano e sardoche egli aveva chiamati sulla suanaveperché assistessero al colloquio. E questo si mutò presto quasi in undiverbio. Il Mundyospiteebbe anzi un bel da fare onde Garibaldipur conragionenon trascendesse. Il Letizia aveva tra l'altre cose osato chiedergliche la rappresentanza cittadina di Palermo facesse un atto di sottomissione alsuo Re. E allora Garibaldi proruppe che la rappresentanza cittadina era in luiDittatoree rotta ogni trattativa si ritirò. Ma nel partirsi da bordo sirivolse al Comandante americano Palmerconfidandogli rapidamente e a bassa voceche in Palermo non aveva quasi più munizionie raccomandandosi a lui perchése potessegliene mandasse. Così tornò a terra.
Ma nel breve tragitto dalla marina al Palazzo pretorioebbe uno di quei momentinei quali gli eroi paganoper dir cosìil fio della loro grandezza. Lo paganocon la tempesta che si scatena loro nell'animocome avvenne al Mazzini nel1833nell'ora terribile in cui si trovò a lottar tra l'idea suache eglichiamava doveree il sacrificio di tantiche per quell'idea suscitata da luisi offrivano alla rivoluzionealla galeraalle forche. E così come narrò disé il Mazzinidi sé e di quel suo momento narrò Garibaldi. "Confessoche non ero scoraggiato; ma considerando la potenza e il numero del nemico e lapochezza dei nostri mezzimi nacque un po' d'indecisione sulla risoluzione daprendersicioè se convenisse continuar la difesa della cittàoppurerannodare tutte le nostre forze e ripigliar la campagna. Quest'ultima idea mipassò per la mente come un incuboma la allontanai da me con dispetto:trattavasi di abbandonar la città di Palermo alle devastazioni di unasoldatesca sfrenata! Mi presentai quindi quasi indispettito con me stesso albravo popolo dei Vespri."
Apparve di fatto dal balcone sinistro del Palazzonel lampo delle invetriatechementre si aprironoscintillarono percosse dal sole già basso verso MontePellegrinoe a capo scopertocome Ferruccio ai suoiprima di Gavinanaparlò.Brevepacatocon voce che suonò come un cantodisse che il nemico gli avevafatto delle proposte ingiuriose per Palermo e che eglisapendo il popolo prontoa farsi seppellire sotto le rovine della sua cittàle aveva rifiutate.
V'è ancora qualcunovivoal mondochesebbene sia passato quasi mezzosecolosi sente sempre nell'anima quella voce. E ancora vede ciò che vide inquell'ora. Vede quella moltitudine che non balenò neppur un istantee che alleultime parole di Garibaldi ruppe in un grido solo: "Sì! Sì! Grazie!Grazie!" con una levata di manidi frontidi cuoritale da fareimpallidire luipel sovrumano peso che gli imponevaaccettando l'onore dilasciarsi sacrificare. Egli guardò un pocopoi si tirò dentro'"ritemprato (lo narrò nelle sue 'memorie') e da quel momento ogni sintomodi timoredi titubanzad'indecisione" gli sparve.
Il discorso di Garibaldi comparve poi subito stampato sotto forma di Proclamaalle cantonate. Diceva così: "Il nemico mi ha proposto un armistizio. Ioaccettai quelle condizioni che l'umanità dettava di accettarecioè ritirar lefamiglie e i feriti: ma fra le richiesteuna ve n'era ingiuriosa per la bravapopolazione di Palermoed io la rigettai con disprezzo. Il risultato della miaconferenza d'oggi fu dunque di ripigliar le ostilità domani. Io e i mieicompagni siamo festanti di poter combattere accanto ai figli dei Vespri unabattagliache deve infrangere l'ultimo anello di catene con cui fu avvintaquesta terra del genio e dell'eroismo."
Parrà forse dir troppo ma è verità. La sera di quel giornoproprio come sericorresse la sua festa di Santa RosaliaPalermo si illuminò tutta. Lasciamostare che i palazzi e le case dei ricchi nelle grandi vie fecero addirittura laluminaria; ma non vi fu casupola per quanto povera e nascosta ne' vicolichenon avesse il suo lume a ogni finestra. E la notte passò in cene e canti e finoin danze. Per prepararsi alla ripresa della guerrase guerra doveva ancoraesservisi avrebbe avuta poi tutta la mattinata appresso.
Ma quando fu mezzodì e i combattenti erano tornati tutti ai loro postiprontia ricominciarefu fatto dire dappertutto che l'armistizio era prolungato di tregiorni. Allora entrò nei cuori che in quanto a Palermo i regi avevano finito. Etanto più crebbe l'idea quando si arrese la compagnia che custodiva il palazzodelle Finanze in piazza Marinadove giaceva un tesoro di cinquanta milioni diducati. Avevano messo il blocco al palazzo una ventina di Garibaldini e unnugolo di popolaniappostati intorno a distanzavigili giorno e nottee cosìil denaro della Siciliarimaneva in Sicilia.
Durante quell'armistiziostettero le due parti ai loro postiognuna con leproprie sentinelle piantate a farsi guardia contro la nemica. E in certi puntidella cittàle sentinelle si trovavano a essere così vicine fra loroche inquattro passi potevano gettarsi a zuffa l'una sull'altra. Perciò in quei luoghiinsieme coi 'Picciotti'che dal grande odio non avrebbero saputo stare senzainsultarsi o saltare addirittura sui napolitanifu messo un gruppo diGaribaldini. E talvolta avveniva che dei soldati napolitani qualcuno o lasentinella stessada una parola all'altrasi lasciava tirare a conversare coiGaribaldiniperdeva la testadava indietro un'occhiatatentennava un pocoepoi scattava via di lancio a rifugiarsi tra loroabbracciatobaciatoportatovia in trionfo per la città. Cosìalla Fiera Vecchiaanche i Bavaresidisertarono a dozzineultime figure di mercenarii che avevano fattoquell'ultima apparizione in Italia.
Magnanimo veramente era stato il primo giorno Francesco Crispi cheappenasottoscritto l'armistiziosi era ricordato subito del Mosto e del Rivaltarimasti in mano dei borbonicinella ritirata dal Parco. Eglisegretario diStato del Dittatorecorse a Castellamare per farne lo scambio con due ufficialisuperiori nemiciprigionieri. Entrò nel forte superbamentee chiese dei dueGaribaldini. Di Garibaldini prigionieri non v'era che il Rivalta; dell'altroquei del Castello non sapevano nulla. Il Rivalta sìsapeva dove era il suopovero amico; ma non lo dissetemendo che il Crispi infuriassee tirassefors'anche su di sé e su di lui la bestialità di alcuno di quei biechisoldati. Diceva il Comandante del Castello che il Mosto era forse dal generaleLanza nel Palazzo Reale. Il Crispi uscì per andarvima tra via il Rivaltaglinarrò che il Mosto esile e stanconella ritirata dal Parco era caduto sfinitosu per l'erta del monte e che sopraggiunti i Cacciatori era stato trafitto abaionettate. Egliil Rivaltaaveva visto da pochi passi più in su morirl'amico a quel modoe sarebbe toccata anche a lui la stessa sortese ungiovane ufficiale non avesse persuasi i Cacciatori a serbarlo per averneinformazioni su Garibaldi. Salvato cosìlo avevano mandato al colonnello Boscoe poi a Palermodove era stato chiuso in una casamatta del Castelloe tra leminacce e gli insulti ivi tenuto sino a quel momento. Ma dalla mattina del 27quando si era sentito sopra il capo tremar le volte al tuonar dei mortaiavevasperatogli si era allargato il cuore.
Sparsa la notizia tra i Carabinieri genovesiandò al Parco Antonio Mosto conalcuni amici; e sul monteancora nel posto dov'era stato uccisotrovò il suofratellodolce e gracile giovineda otto giorni insepolto. E nello stessoposto lo seppellì.

*

Garibaldiun di quei giorniverso serafece una passeggiata a cavallo perla cittàpassando pei luoghi dove le barricate erano meno fitte. Dire cheaccoglienze gli faceva il popolo parrebbe ora poesiaora che il mondo è tantomutato. Miravano le turbe quella figura dolcee non sapendo ben capire come adessa convenisse il gran nome guerrierochinavano religiosamente la fronteogli si protendevano come ad un essere sovrumano. Non era difficile immaginare lefolle deliranti di certi altri paesi prostrate per voluttà di farsi schiacciaredai carri sacri. Egli correggeva con lo sguardo quei fanatismi.
Spirato quel termine di tre giornifu prolungato l'armistizio di altri tre. Siindovinava in ciò gli ondeggiamenti della Reggia di Napolidove il re mite ele donne fiere tenevano la questione sospesa tra i consigli di chi voleva chePalermo fosse tutta ridotta in rovinee il vecchio saggio Filangeri cheammoniva il Resupplicandolo di non si mettere da sécon quell'eccidioalbando di tutta l'Europa liberale. E il suo consiglio prevalse. Così al terzoarmistizio seguì una convenzioneper la quale i regi si obbligavano a sgombrarPalermoperò con l'onore delle armi. Garibaldi concesse. Andassero pureonorati! Erano italiani anch'essie nel trattarli cosìegli poteva dire diriportare un'altra vittoria.
E il giorno 8 giugno fu uno strano spettacolo. Al cospetto di molto popolo infestadinanzi a forse quattrocento Cacciatori delle Alpi raccolti per quellacerimoniasfilarono i ventimila soldati dell'esercito regiosoldati di tuttele armi. Dove andavanodove si sarebbero ancora incontrati a combattere conquei loro vincitori checosì pochiavevano dietro di loro l'Italia Nuova? Nonsapevanoma pareva sentissero che il mondo abbandonava il loro sovrano.Tuttaviase passavano senza fierezzanon avevano aria avvilita. I soldatiavevano combattuto.
Allora Palermo festeggiò sé stessa magnificamentee quelli che chiamava isuoi liberatori. Essiin venticinque giorni dalla partenza da Genovaavevanovissuto quanto si può vivere in parecchi annie veduto e sentito quanto in unlungo viaggioper terre di civiltà antiche e venerande. E avevano anche potutomeditare sugli effetti delle rivoluzioni compiutesidurante l'ultimo secolonell'alta Italiadove se le miserie della vita erano ancora moltecerta sommadi beni s'era pur cumulata nelle città e nelle campagnee di questi beni tuttine avevano risentito. Ma là nell'Isolarimasta nel silenzio e nellasolitudinesenza essere stata toccata dalla rivoluzione francesequasi tuttoera ancora come doveva essere stato parecchi secoli indietro. Grandezze daprincipi in una classe ristretta; povertàignoranza e superstizione nellagrossa moltitudine; esalvo le grandi cittàassenza quasi assoluta di quelceto di mezzo coltoriccooperosoche nell'alta Italia teneva già sin daallora in pugno le sorti sociali. Però l'anima siciliana si rivelava pronta aliberarsi da quanto di troppo vecchio la impedivae capace di rimettere inbreve il gran tempo perduto. Ma queste eran cose da lasciarsi al poi. Per allorabastava che l'Italia spingesse avanti l'opera iniziata dai Siciliani e daiMille. Questi si sarebbero modestamente confusi nell'onda grossa di volontariche essa avrebbe mandaticome infatti mandò.
Ma nei giorni che corsero tra lo sgombro dei regi e l'arrivo di quella che fuchiamata la seconda spedizione condotta dal Medicile gioie che Palermo feceloro godere furono cose da novelle orientali. Banchetti e festiniuno cheaspettava la fine dell'altro per cominciare. I Millesmessi i panni borghesivi comparivano nelle loro fiammanti camicie rossemirabili le Guide nellepittoresche divise tra ungheresi e francesi; mirabili i Carabinieri genovesi inun costume severo e quanto mai signorile.
Ogni tantoperòsi faceva qualche gran funerale di morti per feriteperchégrandiosa e solenne doveva essere in Palermo anche l'ospitalità della tomba.Così certi umili volontari chemorti nelle loro casesarebbero statiaccompagnati al cimitero da pochi umili come loroebbero esequie da grandi.Quelle di Adolfo Azzi morto il 4 giugnoquelle del colonnello Tukory morto il dì8furono apoteosi. Intanto alla gioia veniva a mescersi certa mestizia. Era diquella che le grandi cose lasciano nel cuorequando sono compiute. Gli animialacri e lieti della vigilia cambiano godimento nella tristezza di poi.
Quanto a quelli che avanzarono dopo Palermoalcuni andarono a morir a Milazzocome Vincenzo Padula da PadulaGaetano Erede da Genova e Giuseppe Poggiilbello ed eroico Poggicui Garibaldi aveva ammirato a Calatafimi. PiladeTagliapietra da TrevisoGiuseppe Profumo da GenovaPietro Zenner da Vittorio el'angelico Ernesto Belloni da Trevisocaddero a Reggio Calabria; AngeloCereseto e Giovanni Battista RoggeroneQuirico e Pietro Traversotutt'equattro genovesie Innocente Stella da Arsieromorirono in battaglia sulVolturnoe a Villa Gualtieriil 1° ottobre. Così in tuttidei MilledaCalatafimi al Volturnoquelli che morirono in quel grand'anno furonosettantotto. Altri come il Nullo ed Elia Marchetti andarono presto a morir inPolonia cavalieri poeti della libertà; altri ancora come Raniero Taddei eAntonio Ottavi da Reggio Emilia e Stefano Messaggi milanesemorironocombattendoufficiali dell'esercitoa Custoza; o come Vincenzo Dalla Santa eGiuseppe Dilani camicie rossenel Trentino. Finirono a Mentana Vigo Pelizzari eAntonio Caretti; alcunicome Giuseppe Gnecco da Genova e Luigi Perla daBergamomorirono in Franciacombattendo ne' Vosgi contro i Prussiani. Di mortenaturalenei primi dieci anni dopo il '60morirono quelli che erano già quasivecchi al tempo della spedizionema anche moltimassime dei più giovaniconsumati dalla tisi. Non pochi finirono di malattie mentali; troppi si spenseroda sénon rimasti abbastanza forti alla vita.
Si dice che a Quarto sorgerà un giorno un monumento con su tutti i nomi deiMille incisi nel marmo. Sarà cosa che onorerà la patria; ma lo scoglio da cuiGaribaldi scese a imbarcarsiè da sé monumento cui la poesia fece già piùduraturo d'ogni marmo e d'ogni bronzoessa che vince il silenzio dei secoli!